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xxvi. la prosa di leopardi 209


Stimava Leopardi che la prosa italiana fosse lontana ancora dalla sua perfezione, e che in molti generi fosse o mancante in tutto, o imperfetta. E nella sua solitudine, alieno da ogni commercio umano, non gli pareva impossibile di creare con lo studio e con l’ingegno la prosa italiana.

Il suo concetto è giusto. Stimava che la prosa italiana fosse stata efficace senza semplicità, o semplice senza efficacia; ed egli mirava ad una semplicità efficace. La quale efficacia credeva di poter conseguire con quel vigore logico, di cui è visibile il difetto nella nostra prosa, vale a dire, con una forma limpida ed evidente, fondata su di una ossatura solida e intimamente connessa, come in un corpo organico. I nostri prosatori, per conseguire l’efficacia, sogliono aver ricorso a movimenti d’immaginazione e di sentimento, che scoppiettano su di una ossatura fragile e scongegnata, vale a dire a spese della logica. E questo egli doveva notare principalmente in Pietro Giordani e Vincenzo Gioberti, i due suoi migliori amici, mirabili per lo splendore, ma non per la stretta conseguenza dell’ossatura. Ora a Giacomo Leopardi la prosa pareva voce dell’intelletto; e non le si affaceva quello stile immaginoso e patetico, che si conviene a poeta. L’efficacia della prosa egli la cercava nelle qualità intellettuali, accompagnate con la purità e la limpidezza dell’esposizione.

La semplicità e l’efficacia sono le due qualità essenziali dello scrivere in prosa, che Leopardi trovava nella prosa greca e ne’ nostri trecentisti, i più atti, secondo il suo avviso, a rendere quella divina prosa. Perché, se in questi scrittori il pensiero è fiacco, e l’ossatura sconnessa, la forma nella sua mera estrinsechezza ha davvero semplicità ed efficacia; il contenuto è volgare, ma l’istrumento è ottimo.

Ed egli lo ha saputo adoperare egregiamente ne’ volgarizzamenti che andava facendo de’ moralisti greci. Nelle sue traduzioni, massime del Manuale di Epitteto e degli Avvertimenti morali di Isocrate e della Favola di Prodico, la lingua del trecento esce fuori propria e semplice, in uno stile vigorosamente intellettuale, che le dà evidenza senza bisogno di colorito o di movimenti sentimentali. L’efficacia è conseguita non da altro

14 — De Sanctis, Leopardi.