Operette morali/Il Parini, ovvero Della Gloria/Capitolo primo
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Capitolo primo
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Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza.
Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria che sola, si può dire, di tutte le altre, consente oggi di essere colta da uomini di nascimento privato: cioè quella a cui si viene talora colla sapienza, e cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere. Già primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co’ suoi cittadini del tempo e dell’opera che egli poneva in procacciarla; ora allegando che gli studi delle lettere e della filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche, ora che sforzato dall’iniquità dei tempi ad astenersi dai negozi maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l’ozio suo; e sempre anteponendo alla gloria de’ suoi scritti quella del suo consolato, e delle cose fatte da sé in beneficio della repubblica. E veramente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l’operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi, niun ingegno è creato dalla natura agli studi; né l’uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne. E puoi facilmente considerare in Italia, dove quasi tutti sono d’animo alieno dai fatti egregi quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture. Io penso che l’antichità, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a’ piedi, alcuni volumi, quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria1.
Ma tra noi moderni, esclusi comunemente da ogni altro cammino di celebrità, quelli che si pongono per la via degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d’animo che oggi si può mostrare, e non hanno necessità di scusarsi colla loro patria. Di maniera che in quanto alla magnanimità, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi l’infelicità naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo sia conveniente e dovuto non meno all’ufficio mio, che all’amor grande che tu meriti e che io ti porto, renderti consapevole sì di varie difficoltà che si frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sì del frutto che ella è per produrti in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho potuto conoscere coll’esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco medesimo, da una parte, quanta sia l’importanza e il pregio del fine, e quanta la speranza dell’ottenerlo; dall’altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta seco il cercarlo (dei quali ti ragionerò distintamente in altra occasione); tu possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia più spediente di seguitarlo, o di volgerti ad altra via.
Note
- ↑ Pausania, lib. 2, cap. 20, p. 157.