Giacomo Leopardi/XVIII. 1822-23: «Alla Primavera» e l'«Inno ai patriarchi»

XVIII. 1822-23: «Alla Primavera» e l'«Inno ai patriarchi»

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XVIII. 1822-23: «Alla Primavera» e l'«Inno ai patriarchi»
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XVIII

1822-23


«ALLA PRIMAVERA» E L’«INNO AI PATRIARCHI»

Se il Bruto e la Saffo furono scritti prima che Leopardi andasse a Roma, o dopo, è una ricerca senza importanza. Certo è che furono scritti nel giro di questo tempo e di questi sentimenti. La poesia Alla Primavera fu scritta probabilmente a Recanati in maggio, nel suo ritorno da Roma, col cuore gelido, in mezzo alla volgarità della sua vita. La primavera ha prodotto sempre un grande effetto sul suo animo. L’infelice passò la sua vita a desiderare, ad attendere ciascuna primavera, sempre con que’ chi sa! che sono un’altra illusione. Avea passato l’inverno benino; la salute era buona, potea studiare, farsi le passeggiate. L’odore della primavera svegliò nel suo cuore certi palpiti insoliti, la memoria della sua giovinezza. Ma furono velleità, ed egli ci ragiona sopra e ci fa dei versi.

Il poeta non ha la forza di trasportarsi in mezzo a quella bella natura, aspirarla, goderla. E non ha neppure la forza di disperarsi, di alzare le grida. Non sente la primavera pur descrivendola e ragionandovi su. Le immagini si spuntano in concetti, in contrasti, in riflessioni. Vuol dire: — Tornata è la primavera, ma non torna la mia giovinezza — . Questo lo pensa, ma non lo sente. E n’esce una forma discorsiva, che i punti interrogativi non valgono a riscaldare. Il poeta se la piglia con la scienza, l’«atra face del vero», che ha distratta ogni vita [p. 164 modifica]poetica della natura, com’era nei tempi giovani dell’umanità, secondo le favole antiche. Il concetto era stato già espresso nella canzone al Mai. Ora è ripigliato e sviluppato, forma anzi il vero contenuto di questa canzone. Tema vecchio della poesia contemporanea, questo lamento della morte delle antiche divinità. Vincenzo Monti se la pigliava coi romantici, come se fossero dessi che avessero abbattuto l’Olimpo. A lui parea che senza mitologia non ci fosse poesia possibile, come se la sostanza della poesia fosse in quelle forme morte, divenute convenzionali. Più dirittamente Leopardi accusa la scienza, vera e sola omicida delle vecchie favole. Monti avea torto, e Leopardi non ha ragione.

La poesia non ha bisogno di nessuna mitologia per esser viva, e la natura continua ad esser viva senza Apollo e senza Diana. I fiori e l’erbe e i boschi non vissero solamente un dì; vivono sempre nel nostro cuore e nella nostra immaginazione. E se talora paiono morti, è una nostra illusione. Ciò che è morto, non è in loro, ma è al di dentro di noi, quando il sentimento diviene ottuso, e non sentiamo più la natura vivente. Quando il poeta scriveva alla graziosa luna, la luna era a lui ben viva, ancorché fosse morta la casta Diana. Certo, l’umanità nella sua giovinezza aveva messo nella natura quella vita che è in noi, e l’aveva animata e umanizzata, popolando di esseri cieli e mari e inferni. Ora che l’umanità è adulta, tutti quegli esseri, figli dell’immaginazione giovanile, sono scomparsi: e non è però la natura men bella e meno interessante. Deplorare dunque la morte di quelle forme, come se ivi fosse la vita della natura e la sostanza della poesia, e pigliarsela con la scienza, non è cosa ragionevole.

Ma la poesia non è filosofia, e la verità poetica è altra cosa che la verità filosofica. La verità poetica è ciò che è creduto vero dal poeta e produce sul suo animo effetti estetici. Leopardi vede nella caduta dell’Olimpo la morte di tutte le illusioni, la fine della giovinezza, il nulla delle umane cose. E questo è assai più che non si richiede per rendere interessante questa poesia. E in verità, se il poeta avesse qui il sentimento vivo e le impressioni profonde, e se l’immaginazione svegliatasi per davvero lo trasferisse tutto in quella vita antica e gliela animasse e gliela [p. 165 modifica]colorisse, niente mancherebbe all’effetto estetico, e noi ci vivremmo dentro, e sentiremmo quelle impressioni, e avremmo quelle immaginazioni. Ma la primavera non ha destato nel suo animo che alcune velleità di sentimento e d’immaginazione.

C’è ancora del torpore in quella vita interiore, da qualche tempo muta. Il poeta non s’è svegliato bene, ci si sente la sonnolenza della vita quotidiana. Perciò si accosta all’argomento con animo di erudito, e più disposto a ragionare che ad immaginare. Nella sua memoria erudita tornano le candide Ninfe, e gli agresti Pani, e la faretrata Diva, e la ciprigna luce, e Dafne e Filli, e le arcane danze degli Iddii e lo spirar delle foglie. Tornano nella memoria, ma rimangono fuori dell’immaginazione; sì che quella bella natura conscia dell’uomo ci sta innanzi come una storia poco sentita e senza eco. Manca il contrasto con la natura indifferente, mancano le impressioni che quelle immagini fanno sul suo spirito. Il pastore che ode lungo le ripe l’arguto carme di agresti Pani, e vede tremar l’onda, dove occulta si bagna Diana, l’uomo del bosco che sente tra le foglie palpitar Dafne e la mesta Filli, sono immagini estranee al nostro sentire, una storia opaca, senza luce, senza ripercussione. Il motivo poetico è la natura pensosa de’ mortali ed ora obbliviosa. Ma è un prima e un poi staccato, successivo, non compenetrato, sì che l’uno sia di lume e di rilievo all’altro, come nei celebri versi:

Roma antica rovina;
Tu sí placida sei?...
dove si sente più questa natura morta all’uomo che non in questa canzone. E non è a dire che il poeta non ci abbia messo tutto il suo, anzi è questo uno de’ suoi lavori più sudati. Ci si sentono le cancellature e i ritocchi di uno spirito malcontento, ostinato alla lima.

Il periodare è talora faticoso e avviluppato, con molta agglomerazione di oggetti e dissuetudine di immagini, che ti arrestano per via; principalmente nella seconda e terza strofa. Cito, fra l’altro, quello «accogliere al petto gl’ispidi tronchi». Fra tanti [p. 166 modifica]morti rivive solo Eco, che «insegna al curvo etra» le querele umane, immagine còlta dal vero e felicissima, che sopravvive alla ninfa, e ci produce tutta l’illusione di una vita presente, perché, se la ninfa è ita, è rimasta quella sua apparenza di cosa animata. In una età più giovane Leopardi ai primi effluvii primaverili sentì risorgere in sé certe antiche immagini, e invocò la Natura perché gli rendesse la giovinezza: anche qui prega la vaga Natura che gli renda la «favilla antica». Ma qual differenza nello stato del suo animo! Quella è prosa, una lettera al Giordani; questa è poesia. Pure, lì trovi un profondo sentimento poetico, ci senti il giovane ancora entusiasta, ancora resistente al fato; qui ammiri, ma resti freddo; senti l’uomo della vita quotidiana, già abituato a certe idee e a certi sentimenti.

Spinto lo sguardo nella giovinezza delle nazioni, in quel primo fiore di una immaginazione fresca che umanizza cielo e terra, il poeta si riposa in quelle memorie di lontane età, dove trova la felicità negata ai presenti. Quella contemplazione non produce in lui un perfetto obblio, sì che si tuffi entro e ci viva, assaporando in immaginazione quella felicità che non trova nel reale. Né il contrasto tra quelle prime felici età e il presente vale a trargli dal petto stanco altro che un sospiro appena sensibile. Sicché deboli sono le forze dell’immaginazione e del sentimento, e vi supplisce l’erudizione, lo studio meccanico della forma, la riflessione. Questo è il carattere della canzone alla Primavera ed anche dell’inno ai Patriarchi, che paiono nati a un parto, sotto la stessa costellazione psichica.

Anzi, in questo inno la forma è anche più severa, più aliena da ogni impressione sentimentale e da ogni moto concitato d’immaginazione. È scritto secondo il modello dell’antico inno greco, puro racconto della vita d’Iddii e d’Eroi. Non c’è luce nel cervello; la faccia è oscura e monotona; non c’è neppure quel sorriso involontario di soddisfazione, che accompagna l’artista nella felice espressione anche di cose triste. Così mi rappresento io la faccia poco animata del poeta, quando scriveva. Ricorrono sempre i dolori presenti nella contemplazione di quella beata età, ma dolori divenuti quotidiani e abituali, che non colpiscono [p. 167 modifica]più immediatamente l’immaginazione con un senso di novità, e non valgono più a produrre alcuna di quelle frasi felici, che rimangono. E neppure di quelle antiche età è una propria e vera contemplazione, sì che l’immaginazione vivamente percossa scintilli. Adamo, Noè, Abramo rimangono figure pallide, senza espressione.

Quella stessa terra primitiva, che dovrebbe scuotere qualsiasi più torpida immaginazione, risveglia reminiscenze classiche, non produce alcuna onda nuova e fresca di poesia. E non senti il grido del primo fratricida ed i terrori del diluvio e le carezze dell’età dell’oro. Le due ultime strofe, che sono come il «fabula docet» del racconto, e che esprimono l’antica felicità e la crescente decadenza del genere umano, ripetono il concetto della poesia Alla Primavera in forma più generale. L’animo, guardando a’ vasti orizzonti de’ destini umani, non si eleva, quasi fossero spettacoli noti e consueti. Ci s’intravvede un poeta tolto all’arida prosa de’ suoi dialoghi, e che non ancora ha preso bene il suo slancio.

Pure, non c’è cosa che non sia detta in modi nuovi, o per costruzioni o per frasi o per movenza. Ma in queste forme non si sente niente di fresco o di moderno o di popolare: il poeta ti pare un redivivo antico del Lazio nella moderna Italia.

E ci confermiamo ancora una volta che al poeta manca la virtù rappresentativa del mondo esteriore, come manca il senso e il godimento del reale. La natura lo avea fatto grande nella esplorazione del proprio petto, ne’ colloquii col suo povero cuore.