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xviii. 1822-23 - «alla primavera» | 165 |
lorisse, niente mancherebbe all’effetto estetico, e noi ci vivremmo dentro, e sentiremmo quelle impressioni, e avremmo quelle immaginazioni. Ma la primavera non ha destato nel suo animo che alcune velleità di sentimento e d’immaginazione.
C’è ancora del torpore in quella vita interiore, da qualche tempo muta. Il poeta non s’è svegliato bene, ci si sente la sonnolenza della vita quotidiana. Perciò si accosta all’argomento con animo di erudito, e più disposto a ragionare che ad immaginare. Nella sua memoria erudita tornano le candide Ninfe, e gli agresti Pani, e la faretrata Diva, e la ciprigna luce, e Dafne e Filli, e le arcane danze degli Iddii e lo spirar delle foglie. Tornano nella memoria, ma rimangono fuori dell’immaginazione; sì che quella bella natura conscia dell’uomo ci sta innanzi come una storia poco sentita e senza eco. Manca il contrasto con la natura indifferente, mancano le impressioni che quelle immagini fanno sul suo spirito. Il pastore che ode lungo le ripe l’arguto carme di agresti Pani, e vede tremar l’onda, dove occulta si bagna Diana, l’uomo del bosco che sente tra le foglie palpitar Dafne e la mesta Filli, sono immagini estranee al nostro sentire, una storia opaca, senza luce, senza ripercussione. Il motivo poetico è la natura pensosa de’ mortali ed ora obbliviosa. Ma è un prima e un poi staccato, successivo, non compenetrato, sì che l’uno sia di lume e di rilievo all’altro, come nei celebri versi:
Roma antica rovina; Tu sí placida sei?... |
Il periodare è talora faticoso e avviluppato, con molta agglomerazione di oggetti e dissuetudine di immagini, che ti arrestano per via; principalmente nella seconda e terza strofa. Cito, fra l’altro, quello «accogliere al petto gl’ispidi tronchi». Fra tanti