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xviii. 1822-23 - «alla primavera» 167

più immediatamente l’immaginazione con un senso di novità, e non valgono più a produrre alcuna di quelle frasi felici, che rimangono. E neppure di quelle antiche età è una propria e vera contemplazione, sì che l’immaginazione vivamente percossa scintilli. Adamo, Noè, Abramo rimangono figure pallide, senza espressione.

Quella stessa terra primitiva, che dovrebbe scuotere qualsiasi più torpida immaginazione, risveglia reminiscenze classiche, non produce alcuna onda nuova e fresca di poesia. E non senti il grido del primo fratricida ed i terrori del diluvio e le carezze dell’età dell’oro. Le due ultime strofe, che sono come il «fabula docet» del racconto, e che esprimono l’antica felicità e la crescente decadenza del genere umano, ripetono il concetto della poesia Alla Primavera in forma più generale. L’animo, guardando a’ vasti orizzonti de’ destini umani, non si eleva, quasi fossero spettacoli noti e consueti. Ci s’intravvede un poeta tolto all’arida prosa de’ suoi dialoghi, e che non ancora ha preso bene il suo slancio.

Pure, non c’è cosa che non sia detta in modi nuovi, o per costruzioni o per frasi o per movenza. Ma in queste forme non si sente niente di fresco o di moderno o di popolare: il poeta ti pare un redivivo antico del Lazio nella moderna Italia.

E ci confermiamo ancora una volta che al poeta manca la virtù rappresentativa del mondo esteriore, come manca il senso e il godimento del reale. La natura lo avea fatto grande nella esplorazione del proprio petto, ne’ colloquii col suo povero cuore.