Giacomo Leopardi/XVI. 1822: Leopardi in Roma
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XVI
1822
LEOPARDI A ROMA
Quello ch’era Leopardi, quando volgeva in mente il Bruto e la Saffo, si può raccogliere dalla sua lettera a Pietro Giordani il 26 ottobre 1821:
Oh se ti potessi rivedere! Dopo tre soli anni, appena mi riconosceresti. Non più giovane, non più renitente alla fortuna: escluso dalla speranza e dal timore, escluso da’ menomi e fuggitivi piaceri che tutti godono.
Cosa era avvenuto in quei tre anni? Era avvenuto che il giovine s’era stancato di lottare contro la fortuna, e la sua stanchezza o prostrazione prendeva aria di assuefazione e di riposo, e aveva cessato di patire. Ciò ch’egli esprime con chiarissima coscienza. Come Saffo la «negletta», egli è Leopardi «l’escluso», escluso da tutti i piaceri. Non patisce più, perché non sente più. Il suo isolamento aveva finito per isolarlo davvero dalla natura e dall’umanità. A lui non importa punto l’Italia, o il mondo, o l’avvenire. Virtù e gloria non suonano più nel suo spirito. La vita non ha senso. Queste idee fisse che lo tormentavano e lo appassionavano, contraddette e cacciate indietro dal calore e dall’entusiasmo della gioventù, ora sono divenute uno stato abituale e cronico. Vive in sé, e non sente più nulla intorno. È uno stato, nel quale il folle ha già oltrepassata la tentazione del suicidio. Leopardi s’è assuefatto alla noia, s’è assuefatto alla vita. E non pare che indi innanzi avesse tentazione di suicidio, com’ebbe nei primi anni. Quel suo nullismo nelle azioni e nei fini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli facevano materia di diletto quel suo stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, a fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro? L’anima attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la faccia. Egli viveva ne’ suoi libri e ne’ suoi lavori, meditando, immaginando. Non poteva lavorare molto, ma lavorava seriamente, con tutta l’anima dentro; limava a non finirla mai, non si contentava facilmente. Momenti rari, che dovevano disporlo a sopportare filosoficamente quella sua esistenza prosaica e vacua, dalla quale sapeva pur cavare materia di così squisiti piaceri intellettuali. La sua salute migliorata, la sua facoltà di lavoro filosofico e poetico, una certa rassegnazione stanca divenuta abitudine a vivere così giorno per giorno senza cercare altro, uno assopimento de’ desiderii e delle aspirazioni che gli rendeva alieno il mondo esteriore, quel vivere in sé e di sé in comunione con pochi amici, tra i quali Giordani e Brighenti, tutto questo rendeva la sua esistenza tranquilla, se non felice.
Nell’ultima sua lettera da Recanati manda al Brighenti il danaro per pagargli le poesie del Parini e due volumi delle prose del Giordani. In queste lettere non è più indizio di esaltazione alcuna, non di entusiasmo; il tono è ordinario, e talora scherzoso; ha preso in pazienza la vita. Aveva ventiquattro anni, e finalmente poté andare a Roma per passarvi l’inverno e per cercarvi un impiego.
La vista di Roma non operò alcuna crisi nella sua esistenza. Aveva il gusto poco educato alla scultura e alla pittura. Un chiaro di luna tra le frondi gli faceva più effetto che non una Venere Capitolina. Quella grandezza spopolata romana gli parea «tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini». Scrive al fratello Carlo:
Delle gran cose che io vedo non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia, dopo il primo giorno.
E non si può dire che queste erano prime e labili impressioni, perché negli ultimi giorni di sua dimora in Roma gli esce pur detto a Carlo:
Il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina.
Povero Leopardi! il suo cuore batteva ancora in quella sua vita prosaica. Avrebbe dato tutte le meraviglie di Roma per un riso di fanciulla. Gran parte del suo mondo poetico era ita via: patria, libertà, gloria, progresso dell’umanità; ma lì, nel più intimo, c’era rimasta una spina che non s’era potuta cavare e che a volte lo pungeva: il bisogno d’amore.
E scriveva a Carlo:
Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo piú brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia.
Nel suo mal umore non la perdona neppure a Cancellieri, neppure a Monsignor Mai.
Non si trova un romano, il quale realmente possieda il latino o il greco... Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa.
Il torto non era di Roma, ma era suo. Aveva l’anima oscura, e tutto intorno gli pareva tenebre, e non prendeva interesse per nulla.
Il piacere è un nome, non una cosa; la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono né si mettono a profitto, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole.
Non è dunque maraviglia, che quella immensità di Roma lo annoi.
L’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha la sua principal sede nelle città grandi...; l’unica maniera di poter vivere in una città grande, è fabbricarsi d’intorno come una piccola città dentro la grande.
Ma, grande o piccola, la compagnia non lo appaga, non ci si sente; e scrive al fratello:
Per me non v’è maggior solitudine che la gran compagnia; e perché questa solitudine mi rincresce, però desidero d’essere effettivamente solitario, per essere in effettiva compagnia, cioè nella tua ed in quella del mio cuore.
Non credo che in Roma abbia mai gustato questo piacere, di star solo col suo cuore: onde nascono i sublimi raccoglimenti e le grandi ispirazioni. E non ci è indizio che in Roma abbia scritto un sol verso; anzi tutta quella volgarità di vita che là menava, ci dà indizio del contrario.
Già non era il poeta che lo rendea noto a Roma, era il filologo. E solo con questi lavori potea sperare di procacciarsi fama e buscarsi un ufficio.
Ho mutato abito, o piuttosto riassunto quello ch’io portai da fanciullo. Qui in Roma io non sono letterato, ma sono un erudito e un grecista.
Sperò in qualche commissione, sperò in qualche impiego. Poi si persuase che «cercare impieghi nello Stato è opera quasi perduta»:
Il mio progetto è di farmi portar via da qualche forestiere o inglese, o tedesco, o russo.
Per farsi conoscere scrisse nelle Effemeridi qualche «bagattella tutta erudita», un articolo intorno a Filone, e un altro in latino intorno a’ libri della Republica di Cicerone, pubblicati dal Mai tutta roba di lieve conto. Di maggiore importanza sono le sue Annotazioni sopra la Cronica d’Eusebio, pubblicate in Roma, dove si rivela la sua profonda cognizione del greco, e dove sono certe emendazioni che fanno stupire in uomo estraneo quasi a tutt’i progressi che aveva fatti la filologia in Germania: era come osservare il sole senza telescopio.
Del resto, la dimora di Roma fu propizia alla sua salute.
Io sto benissimo, scrive al padre, e veramente dalla metà di gennaio l’inverno di Roma è terminato.
Ciancia volentieri col padre e co’ fratelli; fa osservazioni argute; racconta le sue impressioni delle ballerine.
Il ballo pare che comunichi alle forme un non so che di divino, ed al corpo una forza, una facoltà più che umana.
Trova il Corso, di carnevale, veramente bello e degno di esser veduto; giudica cosa stupenda la Donna del Lago eseguita da voci sorprendenti:
Potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto.
Che vita fu dunque la sua in Roma? Vita di chi vede e conosce, ma non sente; vita che è descritta così bene nella Saffo. La direi vita volgare di un qualunque se a volte non trapelasse una intelligenza distinta, e una stretta di cuore gonfio, una lacrima ricacciata. Una sola volta quella lacrima uscì, e fu «il primo e l’unico piacere» che provò a Roma:
Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi.