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xvi. 1822 - leopardi in roma | 155 |
eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa.
Il torto non era di Roma, ma era suo. Aveva l’anima oscura, e tutto intorno gli pareva tenebre, e non prendeva interesse per nulla.
Il piacere è un nome, non una cosa; la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono né si mettono a profitto, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole.
Non è dunque maraviglia, che quella immensità di Roma lo annoi.
L’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha la sua principal sede nelle città grandi...; l’unica maniera di poter vivere in una città grande, è fabbricarsi d’intorno come una piccola città dentro la grande.
Ma, grande o piccola, la compagnia non lo appaga, non ci si sente; e scrive al fratello:
Per me non v’è maggior solitudine che la gran compagnia; e perché questa solitudine mi rincresce, però desidero d’essere effettivamente solitario, per essere in effettiva compagnia, cioè nella tua ed in quella del mio cuore.
Non credo che in Roma abbia mai gustato questo piacere, di star solo col suo cuore: onde nascono i sublimi raccoglimenti e le grandi ispirazioni. E non ci è indizio che in Roma abbia scritto un sol verso; anzi tutta quella volgarità di vita che là menava, ci dà indizio del contrario.
Già non era il poeta che lo rendea noto a Roma, era il filo-