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154 | giacomo leopardi |
finalmente poté andare a Roma per passarvi l’inverno e per cercarvi un impiego.
La vista di Roma non operò alcuna crisi nella sua esistenza. Aveva il gusto poco educato alla scultura e alla pittura. Un chiaro di luna tra le frondi gli faceva più effetto che non una Venere Capitolina. Quella grandezza spopolata romana gli parea «tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini». Scrive al fratello Carlo:
Delle gran cose che io vedo non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia, dopo il primo giorno.
E non si può dire che queste erano prime e labili impressioni, perché negli ultimi giorni di sua dimora in Roma gli esce pur detto a Carlo:
Il parlare a una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina.
Povero Leopardi! il suo cuore batteva ancora in quella sua vita prosaica. Avrebbe dato tutte le meraviglie di Roma per un riso di fanciulla. Gran parte del suo mondo poetico era ita via: patria, libertà, gloria, progresso dell’umanità; ma lì, nel più intimo, c’era rimasta una spina che non s’era potuta cavare e che a volte lo pungeva: il bisogno d’amore.
E scriveva a Carlo:
Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo piú brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia.
Nel suo mal umore non la perdona neppure a Cancellieri, neppure a Monsignor Mai.
Non si trova un romano, il quale realmente possieda il latino o il greco... Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano,