Giacinta/Parte prima/VIII
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VIII.
Marietta aveva bussato all’uscio con le nocche delle dita:
— Signorina, c’è la sarta nel salottino.
Ed era andata via.
Giacinta chiuse il libro posandolo sulle ginocchia, incrociò le mani dietro il capo e si abbandonò sulla spalliera della poltrona:
— Che significava quell’insolito slancio di tenerezza della sua mamma? Dava un pranzo e un ballo per la ricomparsa di lei in società!... Proprio?
Sorrideva amaramente, agitando il piedino della gamba ancora accavalciata sull’altra, cercando, cogli occhi socchiusi, con le mani incrociate dietro il capo, una plausibile spiegazione:
— Proprio per me?
Marietta tornò a picchiare:
— Signorina, la sarta.
Giacinta diè un piccolo sbalzo e andò nel salottino di sua madre, dov’era anche il commendatore in veste da camera e pantofole, che esaminava colla signora Teresa le mostre delle stoffe...
— Questa qui... Ti piace?
A Giacinta non piacque, perchè scelta da lui. Preferiva quell’altra di colore verde cupo, più signorile.
— Ma di sera si confonde col nero — disse la signora Teresa: — E non è da ragazza.
— La signora dice bene — aggiunse la sarta.
Giacinta lasciò che scegliesse sua madre; e appena la sarta ebbe finito di prender le misure — Era cresciuta la signorina, dopo quella malattia! — si affrettò a tornare in camera. Quel pranzo e quel ballo la irritavano. E si ridomandava:
— Proprio?... Mochi ne saprà qualcosa!
Il Mochi infatti non aspettò d’essere interrogato.
— Avremo dunque un ballo? Che diplomatica quella Teresa.
A quel sarcastico sorriso, Giacinta si sentì agghiacciare.
— Perchè? — domandò.
— Pranzo, alle quattro... Alle otto, riunione degli azionisti della Banca agricola per l’approvazione dei conti; tra un pranzo e un ballo, si fa presto... Alle dieci, il ballo... Gli azionisti non debbono far altro che montar poche scale... La trovata non è cattiva!... Tua madre diventa una diplomatica di prima forza: non lo avrei mai creduto!... Giacinta era impallidita dalla indignazione.
— Oh, no! Non sarebbe comparsa in quel ballo! Assolutamente.
Si aspettava da un momento all’altro di dover fare una scena colla sua mamma.
— Ne avrò il coraggio!... Mi ribellerò!...
E la mattina che la sarta venne a provarle il vestito, gridò a Marietta:
— Vada via!... Non voglio vestiti!... Lasciatemi in pace, tutti!
— Per carità, signorina! — disse Marietta — Non la riconosco più!...
Vedendo entrare sua madre che precedeva la sarta, Giacinta ammutolì. E si lasciò spogliare dalla Marietta, e si lasciò mettere indosso dalla sarta il vestito da provare, movendosi come un automa.
— Si volti così... Cammini un po’... Stia ferma... Le pieghe della sottana piombano bene... Faremo rientrare un pochino qui... Il busto va a pennello.
E Giacinta ubbidiva, paziente, senza dire nemmeno una parola, con grande stupore di Marietta.
— È contenta? — le domandò all’ultimo la sarta.
— Contentissima.
Appena fu sola, cominciò a rimproverarsi da sè:
— Sono una vigliacca! Sì, una vigliacca!
Piangeva di rabbia, si torceva le mani.
— Ma perchè non accettava dunque la sua sorte? Perchè non si cacciava a fronte alta, armata di disprezzo, fra quella brutta società dove la chiamava il destino? A che disperarsi inutilmente? Farsi valere doveva!
E se lo ripetè ad ogni momento in quei giorni, per rafforzarsi nella sua risoluzione, per impedire che le penetrasse di nuovo nel cuore la debolezza delle altre volte.
— Vedrai! — si sfogava con la Marietta — Cambierò da bianca in nera... Vedrai!
— Brava!
Marietta batteva le mani, vedendole alzar fieramente la testa e agitar le braccia come per apprestarsi a una lotta a corpo a corpo.
— Vedrai! — le ripetè la sera della festa, quando terminò di abbigliarsi, davanti allo specchio, mentre Marietta le aggiustava le pieghe del vestito contenta e superba della sua bella padroncina.
Appena Giacinta entrò nel salotto già pieno di signore e di invitati, presa per mano con la Gina che la faceva sorridere, gettandole, con un rapido movimento del capo, le sue piccole malignità in un orecchio — quella sua aria quasi di sfida fu subito notata.
— Vai a ruba — le disse il commendatore entrando in mezzo alle signore che le facevano festa.
Le presentava tutti ad una volta, tre impiegati della Banca agricola che desideravano ballare con lei e s’inchinarono, pretensiosamente impomatati, sfoggianti le bianchissime e lucide camicie fra il largo sparato dei corpetti, e i polsini dagli enormi bottoni che coprivano fino a metà le mani strette nei guanti.
Andava proprio a ruba, specie fra i giovanotti. La signora Marulli vedendola parlare animatissima e ridere fra un gruppo, in un angolo, era sorpresa anche lei dell’insolita spigliatezza di sua figlia.
— È troppa ingenua — disse al Mochi — Bisogna avvertirla.
— Elle chasse de race — rispose Mochi che si divertiva spesso col punzecchiarla.
— Com’è felice la tua figliuola! — venne a dirle da lì a poco la signora Maiocchi: — Osserva... Dopo la malattia si è fatta più bella... Ma brava! Come balla bene!
Giacinta sguizzava leggera fra le coppie che ballavano confusamente, abbandonata al suo ballerino che, guidandola, le domandava:
— Si sente stanca?
— No, punto.
E giravano, giravano, sguizzavano; Andrea Gerace un po’ serio, ella sorridente, da persona già come abituata, quantunque fosse quello il suo primo ballo.
— Lei balla come una meridionale — le disse Gerace in un momento di sosta. — È la prima volta che io non rimpiango le feste di Napoli.
— Son lieta — rispose — di rammentarle in qualche modo le signorine di laggiù.
— Me le fa dimenticare.
— ... Che caldo! Si soffoca.
Si soffocava infatti; ed era un continuo agitar di ventagli ora che l’orchestra si riposava. Gli uomini si facevano vento coi cappelli a molla schiacciati.
— Gerace, una canzonetta delle vostre!...
La signora Villa gliel’aveva detto con quella smanceria di voce e di atteggiamento bambinesco ch’ella soleva affettare per far più colpo.
— Sì, sì!
La signora Rossi, la Mazzi, il Porati, il Gessi e gli altri ch’eran lì presso approvarono.
— La Carmenella! Mastro Raffaele! — suggerirono ad una volta Merli e Ratti.
Anzi il Ratti andò a prenderlo addirittura pel braccio, e facendogli delle moine come una signorina, fra le risate che scoppiavano da ogni parte della sala, lo conduceva al pianoforte dove già preludiava il Porati.
— Che simpatico giovane!
Giacinta si limitò ad accennare col capo che era della stessa opinione della Gina. Non voleva perdere una nota.
Quella melodia, improntata di una gaiezza mesta, si dondolava col suo ritmo, mollemente, e faceva dondolare, per consenso, tutte le teste: poi, all’ardito strappo di voce che riprendeva la frase allegra del ritornello, correva attorno un mormorio di entusiasmo represso.
Gina, presa la mano di Giacinta, gliela stringeva forte nei passaggi più belli, quasi stesse per isvenirsi.
— Canta meglio del solito questa sera! — le diceva sotto voce.
Quella sera Gerace aveva anche una singolar maniera di lanciar le note verso Giacinta; ed essa, che se n’era accorta, se le sentiva aggirare attorno alla persona, posar sulla fronte, strisciar lievemente sulle guance e sul collo, solleticanti; e aggrottava le sopracciglia, e si chinava inavvertitamente verso di lui, attratta da quella strana sensazione così nuova per lei. Quando alla fine scoppiaron gli applausi, le parve di destarsi da un sogno.
— Quella musica era durata un’eternità?... Un minuto secondo?
Non sapeva rendersene conto.
Gerace le si era avvicinato per ringraziarla degli applausi.
— Son io che debbo ringraziar lei — rispose. — Che musica! Mi è parso quasi di veder Napoli e il suo golfo, che, forse, in realtà non vedrò mai.
— Ti diverti dunque, malatina? — venne a dirle Mochi in quel punto.
La sorvegliava, inquieto, da un pezzo; e le porse il braccio, mentre Giacinta rispondeva:
— Non è difficile, a quel che pare.
Vedendoli passare tra la folla degli invitati, la Maiocchi ammiccò alla signora Villa seduta dirimpetto. L’assiduità del Mochi attorno di Giacinta cominciava a dar nell’occhio:
— Quel vecchio dissoluto era capace di tutto!
La signora Maiocchi notò che Giacinta, tornando in sala sempre al braccio del Mochi, era un po’ rannuvolata. Infatti non ballò più.
— Grazie — disse al Ratti che la invitava ad una polka. — Sono stanca. Ho ballato anche troppo; son convalescente. Mi scusi.