Geografia (Strabone) - Volume 2/Libro IV/Capitolo IV
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CAPO IV.
Tutta quella nazione che ora chiamasi Gallica o Galatica è marziale, coraggiosa, apparecchiata sempre a combattere, ma nondimeno semplice e non punto maligna. Però quando sono irritati traggono numerosi ed uniti alla pugna, apertamente e senza circospezione di sorta; sicchè poi cadono facilmente negl’inganni tesi da coloro che combattono contro di essi. Perocchè chiunque vuole, può dove più gli piace e per qualsivoglia cagione provocarli al combattere, ed è certo di trovarli sempre disposti a mettersi nel pericolo, senza curarsi d’alcun sussidio, fuor solamente la propria forza e l’ardire. Con tutto ciò sono facili a lasciarsi persuadere e ad abbracciare le cose utili che loro vengono dimostrate; sicchè poi si sono dati alla civiltà ed alle lettere. La loro forza procede in parte dalle grandi loro corporature, e in parte anche dall’essere numerosi. E facilmente si radunano in molti perchè sono semplici e precipitosi, ed hanno in costume di sdegnarsi delle ingiurie ch’essi credono fatte a qualcuno dei loro vicini. Ora per altro sono tutti quanti in pace ed assoggettati, e vivono secondo le istituzioni dei Romani dai quali furono vinti. Ma quello che noi ne abbiam detto si raccoglie del pari e dalle antichità loro, e dalle costumanze rimaste fino ai dì nostri presso i Germani: perocchè e per natura e pel modo di governarsi sono somiglianti e congiunte fra loro queste nazioni, e stanno in paesi confinanti, divisi soltanto dal fiume Reno, e somiglianti nel più delle cose. Tuttavolta la Germania è più settentrionale, chi ne ponga a confronto le parti meridionali dell’una colle parti meridionali dell’altra, e così anche quelle rivolte al settentrione. Per quel carattere poi de’ Galli che noi abbiamo già detto, accadono facilmente appo loro le emigrazioni; movendosi eglino a torme e come in un solo esercito; o meglio diremo trasportandosi colle loro famiglie da un paese ad un altro, allorchè sono cacciati da nemici più forti di loro. E i Romani poterono soggiogarli molto più facilmente che gl’Iberi: perocchè e cominciarono a combatter con questi prima che con quelli, e durava tuttavia la guerra contro gl’Iberi1 quando coi Galli l’avevano già terminata; sicchè nel tempo durato a combattere contro gl’Iberi soggiogarono tutti i popoli situati fra il Reno ed i Pirenei. Perocchè concorrendo alla guerra uniti e in gran numero, furono anche unitamente abbattuti: ma gl’Iberi per lo contrario si risparmiarono, venendo alle mani sol pochi alla volta, e chi in un luogo e chi in un altro, a modo di ladroni. I Galli pertanto sono tutti naturalmente belligeri; ma però migliori cavalieri che fanti. Quindi anche ai Romani la migliore cavalleria viene da costoro, i quali poi si trovano sempre più bellicosi quanto più sono al settentrione o vicino all’Oceano.
Fra tutti i Galli si dice che sono valorosissimi i Belgi, divisi in quindici popolazioni poste lungo l’Oceano fra il Reno e il Ligeri; tanto che da soli tennero fronte all’incursione dei Germani, dei Cimbri e dei Teutoni. E fra i Belgi medesimi hanno voce di gagliardissimi i Bellovaci2, e dopo costoro i Suessoni. Del gran numero poi ch’erano i Belgi v’ha questo indizio, che una volta vi si contavano trecento mila uomini capaci di portar armi3. E già ho fatta menzione della moltitudine degli Elvezii, degli Arverni e dei loro alleati: d’onde si fa manifesta la grande popolazione di que’ paesi, e la fecondità delle donne e la loro attitudine all’educaro i figliuoli. Portano sajo e lasciansi crescer le chiome assai lunghe, ed usano anassiridi4 intorno alle parti inferiori della persona: e invece di tonache portano una veste aperta e con maniche, la quale discende fino alle parti vergognose e alle natiche. La lana delle loro pecore è ruvida, ma lunga; e ne fanno quella specie di saj velluti che i Romani chiamano læne. Tuttavolta anche nelle parti più settentrionali hanno montoni di bellissima lana, avendo cura di tenerli coperti. L’armatura di che fanno uso questi popoli è commisurata alla grandezza dei loro corpi: però hanno una lunga spada che si distende al loro destro lato: anche lo scudo ch’essi usano è lungo, con lance proporzionate. Portano inoltre una specie di picca denominata mataris; ed alcuni fanno uso eziandio di archi e di fionde. Hanno oltre di ciò anche una specie di giavellotto fatto di legno, cui lanciano colla mano, e non già con coregge, più lontano che non sogliano spingersi le frecce, e del quale si valgono massimamente nella caccia degli uccelli. Dormono per la maggior parte anche ai dì nostri sul nudo terreno, e mangiano sdraiati sopra la paglia. I loro cibi compongonsi ordinariamente di latte e di carni d’ogni maniera, ma sopra tutto di porci, così freschi come salati. E sogliono i porci appo loro andar errando pe’ campi, e sono singolari dagli altri nell’altezza, nella forza e nella celerità; sicchè per coloro che non hanno abitudine d’accostarvisi sono pericolosi al pari dei lupi. Hanno questi popoli case di tavole e di graticci, grandi, di forma rotonda, alle quali poi sogliono sovraimporre un comignolo di stoppia. Le pecore ed i porci sono colà in tanta abbondanza, che que’ paesi somministrano lane e salsumi non solamente a Roma, ma sì anche a quasi tutte le parti d’Italia. I loro governi erano per lo più aristocratici. Secondo un’antica usanza solevano eleggere un capo ogni anno; e così pure la moltitudine soleva creare un condottiero degli eserciti: ma ora ubbidiscono per la maggior parte a quanto vien loro comandato dai Romani. Hanno poi ne’ loro concilii un’usanza propria soltanto ad essi. Quando qualcuno disturba o interrompe colui che parla, un ufficiale gli si fa innanzi colla spada sguainata, e minacciando gli ordina di tacere: se costui non cessa, l’ufficiale fa una seconda e una terza volta l’atto medesimo, ed all’ultimo gli taglia tanta parte dell’abito, che la rimanente gli debba essere inutile. Ma quel costume invece ch’essi hanno, rispetto agli uomini ed alle donne, cioè di distribuire fra i due sessi le incumbenze in un modo affatto contrario al nostro, è un costume comune anche ad altre popolazioni di barbari.
Presso tutti costoro poi sono tre classi di persone onorate in singolar modo; ciò sono i bardi, i vati ed i druidi. E sono i bardi compositori d’inni e poeti: i vati attendono alle sacre cerimonie ed allo studio della natura5: i druidi, oltre a cotesto studio, coltivano anche la filosofia morale. Hanno poi voce d’uomini giustissimi; e perciò si affida loro il giudizio sì delle cose private come delle pubbliche; sicchè anticamente e decretavan le guerre, e qualche volta ancora impedivanle quando già stavano per cominciarsi. Sopra tutto si commettevano ai druidi i giudizii degli omicidi, e quando sono abbondanti stimano che debba esservi abbondanza anche nei frutti della campagna6. Tanto i druidi poi quanto gli altri affermano che le anime ed il mondo non si consumano; e che verrà un tempo in cui a tutto il resto prevaleranno il fuoco e l’acqua.
Colla semplicità e coll’ardire dei Galli vanno congiunte per altro molta imprudenza, ostentazione, e vanità nell’ornarsi. Però quelli che sono in qualche carica portano cerchj d’oro intorno al collo, e intorno alle braccia ed al carpo delle mani, con vesti colorate e messe ad oro. Per questa loro vanità poi riescono incomportabili quando sono vittoriosi, e facilmente si prostrano quando son vinti. Hanno inoltre qualche cosa di barbaro e di strano che trovasi in quasi tutte le nazioni settentrionali; chè partendosi dalla battaglia, attaccano al collo dei cavalli le teste dei nemici, e per ornamento le sospendono alla vista de’ passeggieri a’ propilei delle loro case. Posidonio stesso dice di avere veduto in più luoghi siffatto spettacolo; e che sulle prime ne fu ributtato, ma poi cominciò a tollerarlo più facilmente a cagione della consuetudine. E quando erano teste di personaggi illustri le imbalsamavano con resina di cedro, ed avevan per uso di mostrarle agli stranieri, nè lasciavano riscattarle nemmanco a peso d’oro. Ma i Romani poi li distolsero così da questa usanza, come da tutte quelle altre risguardanti i sagrificii e le divinazioni, ch’eran contrarie a quanto si trova presso di noi stabilito. Perocchè usavano di ferire colla spada nel tergo un uomo destinato al sagrificio, e trarre augurii dal modo con cui dibattevasi. Del resto non sagrificavano mai senza l’intervento dei druidi7. E si raccontano anche altre maniere di umani sagrificii; come a dire quella di uccidere alcuni uomini a colpi di frecce o di crocifiggerli nei loro templi, o quell’altro d’innalzare un colosso composto di fieno e di legna e con quello abbruciare pecore e bestiame d’ogni maniera ed uomini8.
Nell’Oceano poi dicono esservi un’isola, piccola, non molto addentro nel mare, e situata rimpetto alla sboccatura del Ligeri; e che quivi abitano le donne dei Namniti9, le quali sono invasate da Bacco, e con sacrifizii e con altre cerimonie attendono a placare ed a propiziarsi quel Dio; che a quell’isola non può approdar nessun uomo, ma esse medesime quelle donne vengono per nave ai mariti quando vogliono stare con essi, e poi ritornano all’isola loro: ed hanno in costume una volta ogni anno di levare il tetto del tempio e poscia ricompornelo in quel medesimo giorno, innanzi che il sole tramonti, concorrendo ciascuna delle donne a portare i materiali che fan di bisogno. E se a qualcuna di esse cade il peso a cui si è sottoposta, viene dilaniata dalle altre, le quali gridando evoè10 ne portano intorno al tempio le membra, infino a tanto che non sia cessato il furore da cui sono agitate: e sempre avviene che qualcuna lasci cadere il suo peso e sia così lacerata. Ma più favoloso ancora si è quello che Posidonio racconta delle cornacchie. Dice egli pertanto che nelle parti situate lungo l’Oceano v’ha un porto soprannomato il porto delle due cornacchie11, perchè sogliono apparirvi due di questi uccelli coll’ala destra bianca: che coloro i quali hanno qualche controversia si recano a quel luogo, ed ascendono sopra una certa parte elevata, dove ciascuno dei contendenti colloca sopra una tavola alcuni cibi; e i corvi traendo a quel sito, alcuni ne mangiano, alcuni invece ne disperdono: e vince colui le cui offerte vengono dissipate. Questo dice Artemidoro; ma ha faccia di essere favoloso. Più credibile invece è quello ch’egli racconta di Cerere e di Proserpina, dicendo esservi un’isola presso alla Britannia, nella quale si rende a Cerere ed a Proserpina quel culto istesso con cui sono venerate nella Samotracia. Ed appartiene alle cose credibili anche quanto dice di un albero che cresce nella Celtica, somigliante al fico, e porta un frutto che rende immagine d’un capitello di colonna corintia. Questo frutto essendo tagliato manda fuori un succo mortifero, col quale poi hanno per uso di ungere le loro frecce. Ed anche questa è una delle cose più divulgate, che tutti i Celti sono rissosi; e che presso di loro non è tenuto in conto di turpitudine l’abusare de’ giovanetti. Eforo poi assegna alla Celtica una troppo grande estensione; per modo che le dovrebbero appartenere quasi tutti quei luoghi che noi ora attribuiamo all’Iberia, insino a Gadi: e dice che quella popolazione è affezionata ai Greci, e ne racconta molte particolarità, che non somigliano punto a quello che se ne vede al presente. Fra le quali particolarità avvi anche questa, che i Celti sogliono fare esercizii per non ingrassare, e per non divenire panciuti; ed hanno in costume di castigare que’ giovani i quali si trovan cresciuti oltre alla capacità di una certa loro cintura. - Questo ci basti della Celtica al di là delle Alpi.
Note
- ↑ Questa guerra durò duecento anni.
- ↑ Propterea quod (dice Cesare) a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant, atque ea quae ad effeminandos animos pertinent, important.
- ↑ Cesare, lib. II, c. 4, dice trecento otto mila.
- ↑ Άναξυρίδες sono le brache; d’onde poi venne il nome di Gallia bracata. Così traduce questa voce anche lo Schweighaeuser nel suo recente Lessico Erodoteo, parlando dei Persiani che usarono anch’essi Anassiridi.
- ↑ Πρὸς τῇ φυσιολογίᾳ.
- ↑ Όταν τε φορὰ τούτων ᾖ, φορὰν καὶ τῆς χώρας νομίζουσιν ὑπάρχειν. Così il testo: secondo il quale dovrebbe dirsi che i Galli congetturavano l’abbondanza dei campi da quella dei druidi o dei giudizii capitali. Ma perchè quest’opinione riesce o strana o crudele fuor di misura, parrebbe quasi accettabile la correzione proposta in nota dagli Ed. franc. Σέβκσι δὲ τὰς δρῦς ὅταν τε κ. τ. λ. cioè Hanno poi in venerazione le querce; e quando abbondano ecc. Questa correzione si fonda anche sopra alcune parole di Plinio e di Massimo tirio. Se non che il periodo seguente parla tuttavia dei druidi, e però questo cenno delle querce verrebbe ad essere qui troppo fuori di luogo.
- ↑ Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant. Caes., lib. VI, c. 15.
- ↑ Seguito la correzione del Coray, proposta e adottata già dagli Ed. franc.
- ↑ Τὰς τῶν Ναμνιτῶν γυναῖκας. Così, dopo il Siebenkees, anche il Coray.
- ↑ Μετ᾽ εὐασμοῦ.
- ↑ Può darsi (dicono gli Ed. franc.) che questo porto sia quello di Nantes, e che le due rive della Loira, le quali finiscono come in punte ricurve a guisa di becchi, abbiano dato origine a questa favola.