Garibaldi e Medici/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | II | IV | ► |
CAPITOLO TERZO.
Intanto che Garibaldi assisteva dalle finestre del vicino albergo al lento raggranellarsi degli sbandati militi intorno all’ancor fiduciosa bandiera Italiana, dalla rioccupata Milano sorgiungevano a frotte, sospinti dall’indivisibile spettro, la paura, i Milanesi fuggiaschi, dipingenti a negri colori le delizie della effettuata occupazione della diletta città per parte del vecchio Maresciallo Radetzcki; annuncianti lo scorrazzare nei dintorni, l’incalzare alle spalle delle brigate, degli squadroni sulle peste dell’unica superstite colonna, atteggiata ancora a resistenza, a riscossa.
Non per questo il Generale volle deporre il pensiero di ulteriori tentativi a supremo conato.
Fatti distribuire ai volonterosi, che s’erano nuovamente presentati a riempire i ranghi, gli zaini ed i cappotti che da Merate erano stati trasportati a raggiungere la colonna, ordinò fossero collocati in batteria i suoi due cannoni, disponendo i soldati a tener testa a qualsiasi eventuale attacco.
Dalla vicina Svizzera poi spedì e diramò corrieri incontro agli altri Duci dei Corpi Volontari, del cui ritirarsi in Piemonte colle rispettive milizie eragli pervenuta contezza: invitandoli a riunirsi a lui, fidente ancora di riprendere l’offensiva, deliberato a non deporre ignominiosamente le armi.
Ma dei varî Condottieri, nè Durando, nè Tamberg, nè D’Apice, nè Manara, nè Griffini, chi già vinto dall’invaso scoraggiamento, chi cedendo a gelosia di supremo comando, chi per deposte speranze di possibile resistenza, nessuno rispose al generoso patriottico invito. Alla abnegazione necessaria in quel difficile momento, e richiesta dal magnanimo scopo di tentare uno sforzo supremo, ognuno d’essi preferì ricondurre negli Stati Sardi il proprio branco di soldati, qualcuno certo colla mira di far salve le pericolanti spalline.
Ecco infatti con quali severissime parole l’eminente e coscienzioso abate Luigi Anelli nella sua Storia d’Italia1 descrive questo calamitoso istante attraversato dalla disgraziata nostra patria.
«In condizioni sì infelici di virtù che ora il terrore, ora l’interesse erano consiglieri ciascuno di codardia, non tutto però andò contaminato d’infamia, e le Legioni di Giuseppe Garibaldi e di Giacomo Medici, tutte fuoco di generoso ardire, levata la bandiera: Dio e Popolo obbedivano unicamente alle ultime necessità. Animate da altre speranze, quali sull’ingrandir del pericolo suole immaginare la brava gioventù, come intesero a qual prezzo il re si salvava dai mali della guerra, dissero: la natura averci dato il ferro per fuggire il servaggio; comperar pace a peso d’ignominia non essere da soldato italiano, e la capitale d’un regno stare dove i forti si stringono in falangi, pronte a morire prima di abbandonare la patria alle miserie di servitù».
E appunto in questi nobili sensi si espresse poscia il generale Garibaldi, favellando agli strenui avanzi della decimata Legione, dopo averla guidata e schierata in ordine di battaglia sulla raggiunta piazza del vicino San Fermo. «Apparecchiatevi, disse loro, a tutti i disagi di una lotta disastrosa ed ostinata; è d’uopo siate parati all’insonnia, al digiuno, alla fame. Abbiate però fiducia nel vostro Capo, che, in mezzo a tanto cumulo di sventure, vuol salvo almeno da bassezza, da viltà, da infamia il nome Italiano».
Sopraggiunta la notte, sciaguratamente favorevole a nuove diserzioni, avviò l’assottigliata colonna a marcia forzata verso Varese. Arrivato sul far del giorno (8 agosto) alle porte della patriottica città, prima d’entrarvi fece eseguire un breve alt, allo scopo di attendere e riunire le tardeggianti squadre.
Ma l’impressione che n’ebbe fu così dolorosa che non potè più oltre padroneggiarsi e rattenere una lagrima, che per ineffabile corruccio gli tremulo nella pupilla.
Però l’intrepidezza, il sangue freddo, la serena calma del fido Medici, uno de’ pochi luogotenenti che aveva saputo affezionarsi e mantenersi ai fianchi gran parte del battaglione Anzani, aggiunti alla valentìa del colonnello Marocchetti, altro suo aiutante d’America2, che aveva da pochi dì raggiunto, per seco lui dividere la dubbia sorte di que’ supremi momenti, lo affidarono a continuare per proprio conto la disperata lotta.
Passò quindi l’intiera giornata e la notte susseguente in Varese, sempre per ogni guisa festeggiato da quella italianissima fra le italiane città. Ma strategìa di più lunga conservazione di sè e de’ proprî compagni ad una perigliosa guerra venturiera, lo consigliò ad abbandonare quella posizione, dolente ed irato di dover passare la frontiera, prima di essersi misurato con quella canaglia di Austriaci3.
Varcato il confine, si recò a Castelletto, d’onde inviò il suo Medici a Lugano coll’incarico di raccogliere i giovani italiani colà emigrati.
Il solerte e beneviso ajutante fece il dì dopo ritorno al campo con circa 300 uomini; misero risultato in confronto del numero de’ vagabondi ed oziosi momentaneamente costretti ad esilio; ma abbondantissima messe in un campo nel quale la bufera della sfiducia aveva sfrondata e calpesta ogni lusinga di rivincita, ogni speranza di possibile riscossa.
In quel di appunto (11 agosto) perveniva a Garibaldi ordine dal Governo Subalpino, omai intimidito dalla prepotenza Austriaca, e di sciogliere la sua banda4, e di sgombrare il territorio Piemontese».
Siffatta intimazione destò alta l’ira nell’anima gagliarda del provocato Duce, spingendolo a completamente ribellarsi alla tentennante Monarchia, e a più deliberatamente disporsi a novelli cimenti contro le orde straniere. Quasi a suggello della presa risoluzione, issata la Mazziniana Bandiera Dio e Popolo dettò, improvvisandolo, il seguente Proclama:
- Italiani!
«Eletto in Milano dal Popolo e da’ suoi rappresentanti a Duce d’uomini la cui meta non è altro che l’indipendenza italiana, io non posso uniformarmi alle umilianti convenzioni ratificate dal Re di Sardegna collo straniero, abborrito dominatore del nostro Paese.
Se il Re di Sardegna ha una corona che conservò a forza di colpe e di viltà, io ed i miei compagni non vogliamo conservare con infamia la nostra vita; non vogliamo, senza compiere il nostro sacrificio, abbandonare la sorte della sacra terra al ludibrio di chi la saccheggia e la manomette.
Un impeto solo di combattimento gagliardo, un pensiero unanime ci valse la santa virile indipendenza che gustammo; sebbene pochi fra i migliori l’avessero guadagnata, ed uniti poscia coi più, per inganno, la vedessero scomparsa.
Ma ora che il pensiero, sciolto l’iniquo freno alla sua manifestazione, già diffuse per tutte le menti quella suprema verità che suona a sterminio dei tiranni; ora che l’opera da infiniti elementi rafforzata si può ordinare e la prestano già numerosi corpi emancipati dagli interessi legali: ora che sono smascherati que’ traditori che pigliarono le redini della rivoluzione per annichilirla; ora che sono note le ragioni dell’eccidio a Goito, della mitraglia e delle febbri di Mantova, dello sterminio de’ prodi Romani e Toscani, delle codarde capitolazioni, il popolo non vuol più inganni.
Egli ha concepito la sovrana sua potenza, la provò e vuole conservala a prezzo della vita; ed io ed i miei compagni che ne avemmo fiducioso mandato, che l’accogliemmo qual dono il più prezioso che potesse a noi largire il Supremo, noi vogliamo corrispondergli come ne spetta. Noi vagheremo sulla terra che è nostra, non ad osservare indifferenti la tracotanza de’ traditori, nè le straniere depredazioni; ma per dare all’infelice e delusa nostra patria l’ultimo nostro respiro, combattendo senza tregua e da leoni la guerra santa, la guerra dell’indipendenza italiana5.
- Castelletto 13 agosto 1848.
Firmato Garibaldi». |
Fatto affiggere e diramato il suesposto appello a generosa rivolta, il 14 di notte, fè levare il campo e si portò co’ suoi prodi ad Arona. Colà, impadronitosi de’ due battelli a vapore destinati al servizio del lago, non che di altre tre piccole barche, vi fece montare uomini, cannoni e cavalli, e così in ordine di battaglia, si cacciò sulle acque — dominatore del Verbano. Intenzionato qual’era di riporre il piede sul suolo Lombardo, e di cimentarsi a novelli conati, prima di vilmente deporre le armi, solcò fino a mezzo il lago approdando a Luino.
Sbarcatavi la propria colonna la mattina del 15, sentendosi alquanto abbattuto, perchè visitato da febbre intermittente, si riparò all’albergo della Beccaccia, ove chiamato a sè il fido Medici, amorevolmente gli disse: «Ho assolutamente bisogno di un pajo d’ore di riposo, prendi il mio posto e veglia su di noi. Ho sentore che i Tedeschi, saputo il nostro arrivo, verranno a ronzarci d’intorno. Alla prima chiamata io sarò con voi altri».
Medici, appostate due sentinelle sulla porta dell’albergo, accampati i soldati fra il ponte ed il borgo, spedì perlustratori nei dintorni ad attingere notizie sul conto delle sospettate mosse nemiche. Non era ancor trascorsa un’ora dalla presa disposizione, che i villici sparpagliati a tale scopo, furon visti retrocedere trafelati e sgomenti, urlando: i Tedeschi! i Tedeschi!
Infatti un corpo di circa mille Austriaci, incaricato dall’imperiale Governo di provvedere al disarmo delle popolazioni lombarde, era giunto il di antecedente a Varese, d’onde, appena informato la mattina stessa dello sbarco dei Garibaldini a Luino, fu inviato a marcia forzata per combatterli.
Avvertito il Generale dell’approssimarsi del nemico, fece battere subito a raccolta e in breve istante si trovò in mezzo a’ suoi per dirigerli all’attacco, od alla difesa. Dopo aver suddiviso la sua truppa in due colonne, pose l’una a capo della strada maestra, destinata a far fronte ai sorvegnenti Austriaci, ed ordinò all’altra, comandata dal Medici, di prendere una posizione di fianco, onde stornare il pericolo d’essere circondati e poter anche all’uopo servire di riserva o di rinforzo.
Occupate appena le designate posizioni, si videro dalla strada postale sovraggiungere gli Austriaci, che certamente istruiti della antecedente presenza di Garibaldi all’albergo della Beccaccia, vi si spinsero a primo impeto, nella speranza di farlo prigioniero. Impadronitisi dell’albergo, vi praticarono subito feritoje nelle muraglie, e da quelle bersagliavano al coperto le squadre dei Volontari.
Garibaldi, che, evaso in tempo utile, s’era già raccolta intorno e rianimata la sua mezza colonna, momentaneamente sgominata dalla prima sorpresa, le diè ordine di caricare i nemici a bajonetta e prendere l’albergo d’assalto. Resistettero da principio gli Austriaci, energicamente difendendosi; ma poi, riattaccati più gagliardamente mercè il rinforzo della mezza colonna appostata di fianco, furono costretti a cedere al vigoroso urto degli assalitori.
Lo strenuo Medici fu visto in quel decisivo assalto dar l’esempio a’ suoi militi di scalare la cinta dell’annesso giardino. Molti fecero in quella emergenza prodigi di valore, perchè fidenti nella valentìa de’ propri Condottieri.
E non si richiedeva di meno per mettere in piena rotta un nemico molto più numeroso ed agguerrito.
Nella precipitosa fuga gli Austriaci, invasi da vero terrore, buttarono, seminandoli per via, sacchi, fucili, giberne, non soffermandosi più che alle porte di Varese.
Vittime di questo fatto d’armi furono una cinquantina fra morti e feriti dalla parte di Garibaldi; del doppio e d’un centinajo di prigionieri da parte degli Austriaci.
Medici ebbe ordine di inseguire col suo battaglione i fuggiaschi; ma sopraggiunta notizia che un secondo corpo, più poderoso del primo, si avanzava a nuova offesa, soffermossi a Germignaga, ove fece in un subito costruire barricate, praticar fori nelle muraglie, disponendosi a respingere qualsiasi sorpresa od assalto notturno.
Nel frattempo Garibaldi aveva staccati picchetti perlustratori in diverse direzioni, ed indi, rassicurato essere quest’ultimo un falso allarme, diede ordine di portarsi a Ghirla e di là per Induno a Varese, precipitosamente sgombrata dai Tedeschi, appena seppero del suo avvicinarsi.
È indescrivibile la gioja quasi delira dei Varesini nel rivedere il valoroso Condottiero entrare trionfante in città, fedelmente vestito alla foggia americana, con tunica rossa e spada pendente dalla cintura di cuojo, seguito dal suo Stato Maggiore. Verso le 5 pomeridiane ricevette dal Peregrini la bandiera tricolore, stata da lui nascosta qualche di prima, per salvarla dagli austriaci artigli. Entusiasticamente acclamato dal popolo festante, prese alloggio in casa Ponti, mentre i suoi soldati, parte occupavano le alture di Biumo, parte serenavano alle porte della città.
Invitato al Palazzo Municipale, si presentò al pubblico acclamante, a cui tuonò queste maschie parole: «Non è colle grida e cogli applausi che si combattono i nemici della Patria, ma coli’ armi e col sangue. Ogni oggetto atto ad offendere, un fucile, un ferro, una falce, un bastone, un arnese qualunque può tornare utilissimo alla guerra che noi dobbiamo adesso incominciare e proseguire ostinatamente contro lo sgherro vilissimo dell’Austria. Imperocchè non trattasi ormai più d’affrontare le schiere compatte ed ordinate d’un esercito in campo, ma di molestare invece da ogni parte, alla spicciolata, all’improvviso, senza tregua, il nemico. Ricordate, o cittadini, che ogni Croato che si uccide, è un sudiciume di meno per l’Italia. Chi di voi ha un’arma e può brandirla, e non lo fa, è un vile. Chi v’impedisce di adoperarvi per la salvezza della Patria, è un traditore».
Ciò detto, lasciò il Palazzo Municipale, e si diresse a Biumo Superiore, dove nella villa del duca Litta fissò il suo quartiere generale. Durante la notte Varese fu splendidamente illuminata e volontari e cittadini fecero insieme gazzarra, sorbendo e libando le ultime goccie al calice della fuggente libertà.
Nel breve periodo di sua sosta in Biumo, il Generale fu costretto a due durissime necessità: la prima quella d’imporre una taglia, all’uopo di sostenersi in rivolta, ai Varesini facoltosi, sospetti di tenerezza per l’Austriaco: la seconda, quella di far passare per l’armi un villico, indiziato ed accusato di spionaggio al nemico.
Il qual nemico, deciso di farla finita colla rivoluzione, spegnendo l’unica sfavillante fiaccola sopravvissuta alle tenebre omai dominatrici, spiccò contro il valoroso Duce tre poderose colonne destinate, l’una a muovere su Como, la seconda su Varese, la terza su Luino6. Loro piano era quello evidentissimo di porsi fra Garibaldi e Lugano per tagliargli la ritirata tanto pel Piemonte, quanto per la vicina Svizzera.
Avvertito il Generale del sopraggiungere del nemico, si diresse coll’intera colonna ad Arcisate, d’onde distaccò Medici, avviandolo col suo battaglione verso Viggiù. Appena giuntovi, ricevette nuovo ordine di portarsi immediatamente contro un corpo d’Austriaci comandato dal generale D’Aspre, che si avanzava guardingo verso di lui. A tale intento Medici occupò co’ suoi 300 uomini Cazzone, Ligurno e Ròdero: piccoli villaggi formanti un triangolo, preparandosi imperterrito a sostenere colle armi le prese posizioni.
Contemporaneamente Garibaldi, deludendo le scolte nemiche, aveva coi suoi abbandonato l’ingresso della Valgana e per linea traversale da Bregazzano a Sant’Ambrogio, passando sulla postale di Laveno, si era diretto a Gavirate: piegando poi a Ternate e costeggiando la riva sinistra del lago di Varese, era finalmente giunto a Morazzone il mezzodì del sabato 26 agosto.
Distaccati così l’uno dall’altro i due Condottieri per strategia di omai difficile ritirata, dovettero in appresso agire a proprio senno. Medici, attaccato nella sua posizione da forte colonna nemica la mattina, del 22, raggiunse a passo di corsa il colle di San Maffeo, favorevole a prolungare la resistenza e in tal modo, tenendo in iscacco il nemico, porse opportunità a Garibaldi di effettuare la sua ritirata a Morazzone. Di là, dopo aver fatto abbruciare da’ suoi soldati le ultime cartucce, disperando omai dell’ajuto di Garibaldi, fu costretto a compiere la ritirata in Isvizzera. Ond’è che un centinajo di bravi tiratori (perchè gli evasi da Ròdero avevano un dì prima varcato il confine)7, tenne testa per quattro ore ad una colonna di circa 4000 uomini, comandata dal general D’Aspre, che poi, illuso e spavaldo, si vantava d’aver già sbaragliata e fugata l’intera legione garibaldina.
A suo disinganno e vergogna, circondato da 500 prodi, agitava ancora l’italiana bandiera a Morazzone l’indomabile Generale. Perseguito e raggiunto colà da grossa colonna nemica, da tutte parti circuito, ingaggiato alla formidabile decisiva battaglia, Garibaldi colla spada sguainata, sempre in mezzo a’ suoi, sempre là dove più fitte grandinavano le palle nemiche, animava i combattenti, provvedeva ai pericoli, dirigeva sul nemico la morte. «Fermi, per Dio! Viva l’Italia!» sclamava con entusiasmo nel caldo della pugna. E l’assecondavano i suoi fidi, battendosi come leoni pel corso dell’intera giornata (26 agosto).
Sopraggiunta la notte, visto che sarebbe stata, più che temerità, follìa il prolungare quella disperata resistenza, raccolse i suoi soldati in colonna serrata e a bajonetta in canna si aperse un sanguinoso varco tra le file nemiche, seminando tra di esse tale scompiglio, incutendo loro tale spavento, da spingerle col favor delle tenebre a vicendevolmente sbaragliarsi alla cieca.
Riuscito fuor della fitta cerchia in aperta campagna, giunto ad una lega da Morazzone, per meglio provvedere alla comune salvezza, licenziò gran parte della suprestite schiera, consigliandola a dirigersi al confine Svizzero alla spicciolata. Egli, con pochi de’ più intimi, li raggiungeva il dì dopo a Lugano: d’onde, immensamente addolorato per l’Italico rovescio, partì subito per Genova.
Così ebbe fine la quasi singolar tenzone, che sparse tanta luce di gloria sul nome italiano per opera di quel Grande, di cui può dirsi al dì d’oggi:
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . |
Note
- ↑ Capo IV, vol. 2, pag. 232-233. — Giuseppe Mazzini, Op. VII, 178, ci lasciò scritto: «Anelli, unico per fede, per onestà incontaminata, e senno antiveggente in quel gregge di servi (Governo Provvisorio di Lombardia)».
- ↑ Pochi dei reduci da Montevideo con Garibaldi (forse perchè sulle prime, distratti dalla più che naturale compiacenza del rivedere i propri cari, dopo tanti anni d’esilio) seguirono il loro Generale in questa breve campagna. Molti di essi lo raggiunsero poi a Roma nel 1849, dove in gran parte s’immolarono nell’eroica difesa della proclamata Repubblica.
- ↑ Sono queste le testuali parole colle quali il Generale sfogò in quell’istante col colonnello Marocchetti il profondo rammarico che di lui s’impossessò all’atto di abbandonare Varese.
- ↑ Con tal nome l’intimidito Governo del Piemonte ribattezzava, a que’ chiari di luna, l’onorata Legione formatasi sotto i suoi auspici, e che unica aveva resistito alle seducenti attrattive di scioglimento, o ritirata.
- ↑ All’amico mio Pietro Perelli, intimo di Garibaldi e di Medici, vo debitore di questo prezioso documento storico, da lui gelosamente conservato e custodito, anche attraverso alla sciagurata epoca della poi ripristinata e decenne dominazione Austriaca.
- ↑ Fra i prodi che in quella fazione perdettero la vita l’autore di queste Memorie ricorda con una lagrima il giovine pittore Azzolini, altrettanto ardito e valoroso soldato, quanto cordialissimo e gioviale amicone.
- ↑ Erano dunque 10 mila uomini, scortati da 18 pezzi d’artiglieria, da molta cavalleria, eletti all’alto onore di perseguitare, di combattere, di circuire, il valoroso manipolo del novello Leonida, soprannominato dagli Austriaci il Diavolo rosso.
Il 15 agosto 1878, trentennario del combattimento di Luino fu, dietro iniziativa del Comizio de’ Veterani Lombardi, celebrata in quel comune una festa commemorativa in onore di Garibaldi e di Medici, alla quale intervennero pure alcuni dei pochi superstiti di quella gloriosa fazione. Vi pronunciarono patriottici discorsi d’occasione il giovine deputato Adamoli, ed i veterani Griffini, Vivanti e vari altri de’ quali l’autore di queste Memorie non ricorda il nome.