Tentativi fatti dal Canton Ticino — Val Cavarnia
Passaggio dal San Iorio sul San Lucio

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Tentativi fatti dal Canton Ticino — Val Cavarnia
Passaggio dal San Iorio sul San Lucio
III Liriche
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CAPITOLO QUARTO.


Tentativi fatti dal Canton Ticino — Val Cavarnia

Passaggio dal San Iorio sul San Lucio.


Intanto che la massima parte della Lombardia, soggiogata e rioccupata dall’Esercito Austriaco nell’agosto del 1848, si accomodava alla meglio a fruire dell’amnistia promulgata dal ringalluzzito Maresciallo, in nome del suo clemente Imperatore, e con rara, ma, forzata abnegazione, si rassegnava alla durissima legge dei vinti, in Lugano, che fu sempre generoso ricettacolo degli emigrati politici di tutte le nazioni, ribollivano in ottobre, ne’ più caldi italiani colà riuniti, le ire, i progetti, le aspirazioni a novella riscossa.

Mazzini, il famoso agitatore, l’innalzatore della bandiera Dio e Popolo, sotto la quale avrebbero dovuto schierarsi tutti i fuorusciti italiani atti alle armi, era il perno della congiura, il Deux ex machina degli imminenti tentativi, dei patriottici conati. Il calore della sua sempre ispirata parola, la potenza della sua iniziativa, il fascino irresistibile del suo nome, gli avevano rimorchiato e raccolto intorno quanto di meglio e più accreditato nell’arte militare era rimasto in Isvizzera, dopo la partenza per Genova dell’angosciato Nizzardo.

La notizia della sollevazione già operatasi in Valle Intelvi, per impulso dell’audacissimo patriotta Andrea Brenta, ostiere d’Argegno, lo decise a subito agire; nella speranza che, ajutandone l’ardita iniziativa, essa potesse servire di esempio e di sprone a tutta la parte montuosa della Lombardia, a ritentare l’italiano riscatto.

Organizzata quindi la nuova campagna, apprestate le armi, [p. 31 modifica]designati i Condottieri, istruiti i Capi-popolo dei paesi interessati a favorire la nuova irruzione nel territorio lombardo, allo scopo di suscitarlo a rivolta, furono dal Comitato dell’emigrazione prescritti i punti di partenza di tre colonne destinate all’azione. Il Governo del Canton Ticino, per ispirito patriottico e liberale, facendo lo gnorri, assecondava tacitamente l’impresa.

Il primo manipolo fu affidato al colonnello Medici che, glorioso avanzo dell’eroica resistenza dell’agosto, aveva saputo, in quel mese di fremente tregua, sempre più conquistarsi la devozione e l’affetto dei migliori, in gran parte già suoi seguaci.

Avuti ordini ed istruzioni di prendere alla chetichella le mosse da Bellinzona, vi si recò la notte dal 28 al 29 ottobre e aggiunti i seco lui venuti ai già accasermati nel Castello omonimo, si trovò forte di circa 250 uomini, ben volenti ed ambiziosi di dovunque seguirlo. Partiti da Bellinzona prima dell’alba, camminarono tutto il susseguente giorno, col proposito di portarsi sulla cima del San Iorio, che raggiunsero sul tramonto.

Ma la stella d’Italia, già da varî mesi oscuratasi, li perseguitò nel lungo tragitto con tempo burrascoso, indemoniato, con imperversare di pioggia e di vento; tal che arrivando alla prefissa meta madidi, trafelati dalla stanchezza, circondati da neve anzi tempo caduta, molti n’ebbero le membra così intirizzite, da non poter più reggere ad ulteriore marcia. Tre di essi, vittime del gelo, vi rimasero cadaveri. Lo scultore Biella a stento si riebbe da consimile attacco alle piante.

In tali lagrimevoli condizioni, una miseranda notte fu dalla stanca colonna trascorsa in ansiosa aspettativa dell’alba. La mattina il condottiero Medici, rilevata la miseria d’abbigliamento e di calzatura a cui erano già ridotti i suoi militi dalla durata dell’aspro cammino, fece scendere a Dongo il pittore De-Albertis, scortato da un drappello dei migliori, con ingiunzione di reclutare in paese provvigioni di ogni genere e natura. Ma la scarsità del loro numero incoraggiò quei montanari al rifiuto anche del più necessario.

Ritornato al quartiere colla più palmare prova negativa, [p. 32 modifica]fu al pittore ripetuto l’ordine di scendere e provvedere, avvalorandolo però di pia numerosa scorta. Questa buona disposizione alla riuscita, decise il Comune ad aprire una colletta allo scopo di fornire ai richiedenti il denaro necessario alle loro provviste, che furono soddisfatte all’istante con viveri, scarpe e cappotti, il tutto comprato nel paese stesso a pronti contanti.

Discretamente così riavutisi e forniti del bisognevole, pattugliarono e scorrazzarono per alcuni giorni in Val Cavarnia, nei Comuni di Dongo, di Menaggio e Gorlasca, nei quali erano stati assicurati avrebbero trovato appoggio e seguaci.

Quando il prode Colonnello s’accorse d’esser stato solleticato e spinto ad impresa disperata, colla sola certezza di compromettere quelle popolazioni, senza recare alcun utile alla santa causa dell’agognata libertà, raccolse e guidò la sua Legione sul monte Lucio e di là, dopo varie giornate di vana aspettativa di miglior indirizzo ai loro conati, riguadagnò la Svizzera.

Fu questa la colonna che, delle tre spedite sul territorio Lombardo a spalleggiare l’iniziata insurrezione, ebbe più lunga vita; senza aver mai potuto seriamente misurarsi col nemico che, padrone del lago, non aveva mai a buon conto posto piede a terra.

Furono in tal guisa sfruttati con iscapito della causa santa, il buon volere, l’abnegazione, il già sperimentato valore di una colonna di patriotti veramente degni del loro già conosciuto e provato Condottiero.

Da tale infelice risultato si constatò: che le assicurazioni di già scoppiata rivolta di tutte le valli lombarde, fatte dall’irrequieto Agitatore e suoi consiglieri, per animare i ben volenti a spiegarvi la sua bandiera, erano in gran parte infondate, erano cioè l’effetto dei generosi sogni di una mente in buona fede sovreccitata.

Ora dirò brevemente delle altre due colonne:

La seconda (il cui comando era stato affidato cumulativamente al generale D’Apice ed allo Svizzero generale Arcioni), forte di 400 uomini, in gran parte disertori dell’Austria, fu contemporaneamente alla prima, dal Comitato dell’emigrazione italiana, indirizzata a favorire in Valle Intelvi l’opera del [p. 33 modifica]succitato Brenta1 , che con pochi compagni aveva commossa a rivolta, fin dalla metà di ottobre, tutta la Valle.

Ma dei loro prodigi di valore nel tener testa per più giorni e far per due volte volgere le spalle agli Austriaci, non seppero trar profitto i due ambiziosi e mediocri Condottieri; chè, appena messisi in cammino, bisticciarono tra loro sulla supremazia del comando del Battaglione; di modo che l’Arcioni stizzito retrocesse subito alla sua Svizzera. Ond’è che sotto gli ordini del solo D’Apice i 400 Volontari, il primo novembre, da Porlezza entrarono nella Valle, già da 15 giorni insorta2, e attraversandola senza incontrare il nemico, si spinsero fino alla riva del lago, ad Argegno, indi a Torriggia; mentre che 700 Austriaci spediti da Como coll’incarico di reprimere ad ogni costo l’insurrezione, dai due battelli a vapore dominavano il Lario.

Sull’imbrunire la colonna dei Volontari retrocesse ad Argegno, ove passò il resto della notte e gran parte del dì susseguente (2 novembre). Verso sera il generale D’Apice fu avvertito che il nemico, sbarcato la sera prima e spintosi a marcia forzata nella valle, dopo di aver dispersi pochi arditi che avevano occupato il Bisbino, si era portato sulle alture al Casino dei Signori (del marchese Raimondi). A tale notizia, diede ordine alla sua colonna di riprendere la via dei monti e a tarda notte, sotto un diluvio di pioggia, arrivò precisamente al suddetto Casino. Era tanta l’oscurità che fu d’uopo dell’uso delle lanterne per collocare le sentinelle.

Ma all’alba del 3 i Volontari, con loro grande sorpresa, rilevarono che le sentinelle Austriache vegliavano a poca distanza dalle proprie: perchè il nemico guidato dalle medesime lanterne li aveva passo passo fedelmente seguiti. Solo in quell’istante riapparve il generale D’Apice, che dispose i suoi in ordine di battaglia. Comandava il centro certo [p. 34 modifica]Fossati, creatosi colonnello, con altri ufficiali del medesimo stampo e ignoti alla pluralità de’ soldati. L’ala destra, destinata a proteggere la già progettata ritirata in Isvizzera, venne dal Generale affidata a due volontari da lui conosciuti allo Stelvio nei mesi in cui egli vi stette a guardia, per ordine del Governo Provvisorio di Lombardia.

La mattina del 4 fu scoperto sulle alture circostanti un grosso battaglione di Cacciatori Tirolesi, comandati da ufficiali pure armati di carabina, che avevano occupato quelle alture dietro suggerimento e guida di due felloni, guardie di Finanza, chiamati Pensa e Meloni. Dopo un’ora di fuoco sostenuto dai tiragliatori disposti in catena, gli Austriaci suonarono la carica e piombarono numerosi e compatti sui Volontari. Fatte rispondere poche fucilate al bersagliare dei Tirolesi, il generale D’Apice coperto dall’ala destra si salvò a stento, riparando sul Territorio Svizzero, seguito da pochi uomini. Il resto della sperperata colonna, disarmato ai confini dalle truppe Elvetiche, venne dalle medesime scortato a Lugano.

Tale fu l’esito di quest’altro isolato tentativo, fatale al suo audace iniziatore, l’ostiere Andrea Brenta, che, quantunque padre di 9 teneri figli, arrestato con altri suoi compagni nel dì di Pasqua del 1849 in un’osteria di Casarco, fu passato per le armi, il 14 aprile, sul piano della Camerlata ad esempio e spauracchio delle già intimidite popolazioni.

Il terzo manipolo capitanato dal prode ingegnere Daverio, nativo di Varese, non ebbe sorte migliore3.

Spiccatosi da Locarno sullo scorcio d’ottobre, dopo essersi impossessato per sorpresa di un battello a vapore, ancorato davanti al paese, fece rotta per Luino, dove sbarcò i [p. 35 modifica]suoi 150 uomini, in attesa di nuove istruzioni, e rinforzi. Mazzini stava mallevadore che, all’apparire del tricolore vessillo, tutti i montanari del Luinese sarebbero insorti e corsi ad ingrossare le file del minuscolo corpo di spedizione. Ma dopo sei giorni di sosta, il numero degli arruolati era asceso a tre uomini, e anche questi non eran punto Luinesi, bensì giovani accorsi da lungi all’annunzio del nuovo tentativo di riscossa.

Nel pomeriggio del giorno 5 novembre, giunse notizia che a Valdimiro era apparso un drappello austriaco. Daverio ordinò che si movesse ad incontrarlo. Parte della colonna restò di guardia ai ponti di Valdimiro e di Germignaga, mentre un centinajo d’uomini s’avviava incontro agli Austriaci. Non andò guari che li incontrarono. Ma il preavvisato drappello era invece una Brigata: cavalleria; artiglieria, fanteria di linea, e cacciatori. Di fronte a quella imponente forza i cento retrocedettero peggio che in fretta. Passarono il ponte di Germignaga traendo con loro il manipolo che vi stava a guardia e via tutti verso Luino. All’ingresso del borgo Daverio si fece incontro ai ripieganti rimproverandoli aspramente e gridando: che, se nessuno gli teneva compagnia egli sarebbe andato solo ad affrontare gli Austriaci; e a concitato passo si diresse su Germignaga. A quella vista 30 uomini (fra i quali mi è caro ricordare l’attuale deputato avv. Bizzozero), retrocedettero con lui e giunsero al ponte di Germignaga, mentre apparivano sulla Provinciale Varese-Luino le teste di colonne nemiche. Sull’imbrunire si impegnò un vivo fuoco che durò oltre un’ora; poi la superiorità del numero dei nemici persuase l’esiguo drappello dei prodi Volontari a battere in ritirata. Raggiunto Luino, attraversarono il lago, mettendosi in salvo sulla sponda Sarda.

Contemporaneamente il patriota Dolzino era disceso, con una cinquantina d’uomini, alla riva settentrionale del lago di Como fra Menaggio e Gera. Disarmando sul proprio passaggio i corpi di Gendarmeria e di Finanza, si portava a Chiavenna e vi proclamava la Repubblica. Occupati quindi i versanti della montagna sulle due rive del lago di Mezzola fra Gera e Verceja, coll’aiuto d’altri bravi montanari batteva le forze nemiche acquartierate a Colico.

Ma riunitesi poi intorno a Colico dieci compagnie di [p. 36 modifica]Austriaci, scortate da mezza batteria di racchette, la mattina del 28 ingaggiarono battaglia cogli insorgenti, che sopraffatti dal numero, dopo un’accanita resistenza, dovettero cedere in ritirata guadagnando a stento i confini della Svizzera.

Il dì dopo il tenente maresciallo barone Haynau, che aveva guidata la spedizione, entrò millantatore e feroce in Chiavenna, senza più incontrare resistenza.

Di là potè telegrafare al socio Radetzki l’usato motto: L’ordine regna in Chiavenna.



Note

  1. Sul conto di questo prode popolano scrisse una diligente e coscienziosa pagina il patriotta Gaetano Ferrabini, sotto il titolo: Argegno e la Valle Intelvi nel 1848.
  2. I fratelli Piazzoli, fra i quali un egregio sacerdote, possidenti principali e dimoranti in Valle Intelvi, si distinsero assai coll’influenza e coll’esempio nel far insorger la Valle, compromettendosi seriamente coll’Austria.
  3. L’Ingegnere Daverio raggiunse poi subito Garibaldi a Roma, dopochè vi fu proclamata la Repubblica nel 1849. Eletto suo aiutante, fece prodigi di valore il 30 aprile contro l’invadente orda francese, nonchè nella susseguente battaglia contro i Napoletani, battuti ed inseguiti fino a Velletri. Il 3 giugno (giornata che tornò così fatale alle armi italiane, strette d’assedio dalle truppe francesi), ferito nell’assalto dato al Casino dei Quattro Venti, stramazzò da cavallo, rimanendo cadavere all’istante. Ne fu dolentissima la sua Varese, che ne apprezzava degnamente le belle doti d’ingegno e di cuore.