Capitolo III

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Cap. III. Si principia a trattare di ciò che rende noia a’ sensi, e per mezzo loro alla immaginazione, ed alcuna cosa anche all’appetito.

10. Perciocchè non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle e il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella immaginazione altrui con alcun atto, suol forte noiar le persone. [p. 8 modifica]

11. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien loro voglia.

12. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; nè quelle finite, rivestirsi nella loro presenza. Nè pure quindi tornando, si laverà egli, per mio consiglio, le mani dinanzi ad onesta brigata; conciossiachè la cagione, per la quale egli se le lava, rappresenti nella immaginazione di coloro alcuna bruttura.

13. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare. alcuna cosa puzzolente, come alcuni sogliono fare con grandissima instanza, pure accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia, come questo pute! anzi dovrebbon dire: Non lo fiutate perciocchè pute.

14. E come questi e simili modi noiano quei sensi a’ quali appartengono, così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere, e lo stropicciar pietre aspre, e il fregar ferro, spiace agli orecchi, e deesene l’uomo astenere più che può. E non sol questo, ma deesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme; dalla [p. 9 modifica]qual cosa pochi sono che si riguardino: anzi pare, che chi meno è a ciò atto naturalmente più spesso il faccia.

15. Sono ancora di quelli che tossendo. o starnutendo fanno sì fatto lo strepito, che assordano altrui; e di quelli che in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circostanti.

16. E truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia come asino. E tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo ragionamento; e manda fuori quella voce, o piuttosto quel romore che fa il mutolo, quando egli si sforza di favellare: le quali sconce maniere si voglion fuggire, come noiose allo udire e al vedere.

17. Anzi dee l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose. ancora perciocchè pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio; e che colui, che così spesso sbadiglia, amerebbe di esser piuttosto in altra parte che quivi; e che la brigata ove egli è, ed i ragionamenti ed i modi loro gli rincrescano. E certo, comechè l’uomo sia il più del tempo acconcio a sbadigliare: nondimeno, se egli è soprappreso da alcun diletto, o da alcun pensiero, egli non ha mente di farlo; ma scioperato essendo ed accidioso, facilmente se ne ricorda; e perciò quando altri sbadiglia colà dove sieno persone oziose [p. 10 modifica]e senza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente; quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se ne fossono ricordati. E ho io sentito molte volte dire a savi letterati, che tanto viene a dire in latino sbadigliante, quanto neghittoso e trascurato. Vuolsi adunque fuggire questo costume, spiacevole, come io ho detto, agli occhi ed all’udire ed allo appetito; perciocchè usandolo, non solo facciamo segno che la compagnia, con la qual dimoriamo, ci sia poco a grado, ma diamo ancora alcun indizio cattivo di noi medesimi; cioè di avere addormentato animo e sonnacchioso; la qual cosa ci rende poco amabili a coloro co’ quali usiamo.

18. Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il moccichino e guatarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal celabro; chè sono stomachevoli modi, ed atti a fare, non che altri ci ami, ma che se alcuno ci amasse, si disinnamori: siccome testimonia lo spirito del Labirinto (chi che gli si fosse), il quale per ispegnere l’amore onde messer Giovanni Boccaccio ardea di quella sua male da lui conosciuta donna, gli racconta, com’ella covava la cenere, sedendosi in sulle calcagna, e tossiva ed isputava farfalloni. [p. 11 modifica]

19. Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dee mangiare, per cagion di fiutarla: anzi non vorrei io, che egli fiutasse pur quello che egli stesso dee bersi, o mangiarsi; posciachè dal naso possono cader di quelle cose che l’uom ave a schifo, eziandio che allora non caggiano. Nè, per mio consiglio, porgerai tu a bere altrui quel bicchiere di vino al quale tu arai posto bocca, ed assaggiatolo; salvo se egli non fosse teco più che domestico. E molto meno si dee porgere pera, o altro frutto, nel quale tu arai dato di morso. E non guardare, perchè le sopraddette cose ti paiono di picciolo momento; perciocchè anco le leggieri percosse, se elle sono molte, sogliono uccidere.