Fosca/Capitolo XLIII
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XLIII.
Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario:
«23 dicembre 1863. — Registro questa data e queste memorie due ore prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento; ho il cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perchè? Non lo so dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent’anni le lacrime ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste lacrime che non possono trovare una via. Perchè non si piange più dopo i vent’anni?
«Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei, qui, soli, contenti, ma non più contento come un tempo… Mi amerebbe ella meno? No, ella sembra amarmi soltanto più seriamente. Temo d’aver indovinato il segreto terribile che ella si strugge di nascondermi. Clara non è felice.
«Perchè ha pianto ieri sera nel lasciarmi? ella che non ha pianto mai? Ella sapeva pure che mi avrebbe riabbracciato oggi. Non aveva mai assaporato delle lacrime; ne ho bevuta una delle sue. Come sono amare!
«Penso quasi con dispetto, quasi con ira alla strana conformità che la fortuna ha posto tra alcune scene di questi miei due amori così diversi. Che raffronti! che analogia in queste antitesi! Oggi abbiamo passato quattro ore in campagna, sulla neve, in mezzo al fango, come le passai ieri l’altro con Fosca. Clara ha voluto rivedere il nostro tabernacolo, i nostri prati, i nostri alberi, i nostri ruscelli. Ho tentato inutilmente di distorgliela da questo progetto, ho dovuto accompagnarvela. In questa stagione! Non mi dimenticherò mai, mai, di questa passeggiata!
«Perchè ella ha detto che voleva tentare di ritrovarvi sè stessa? Mi ritorna ora in mente questa frase oscura e angosciosa.
«Siamo saliti in una carrozza ove eravamo già stati assieme una volta nei primi tempi del nostro amore. Clara l’ha riconosciuta. V’era ancora nella tappezzeria della vettura un G che ella vi aveva inciso allora con tanti trafori di spillo. Siamo discesi fuori della città dalla parte di Morivione. Siamo stati fino a Vaiano, abbiamo attraversato i prati correndo. Clara ha voluto entrare nella chiesa, e si è inginocchiata un momento per pregarvi. Non vi era dentro anima viva. Che solennità nelle chiese deserte!
«Abbiamo bevuto latte in una di quelle catapecchie miserabili che si trovano allo svolto del canale. Siamo entrati nella stalla; alcuni bambini giuocavano in un angolo della mangiatoia, e ci guardavano attoniti e quasi spaventati; non sapevano levarci gli occhi d’addosso. Che quiete là dentro! che caldo! Ho chiesto a Clara:
«— Vorresti vivere qui con me?
«— No, rispose ella tristamente, ho orrore della povertà.
«Quella contadina ci ha detto:
«— Loro signori sono già stati qui a san Giorgio, me ne ricordo.
«— Quando? chiese Clara.
«— A San Giorgio, nel giorno in cui si usa andare a bere il latte in campagna.
«Allorchè fummo usciti, Clara mi disse:
«— Ho voluto farle ripetere due volte il tuo nome.
«Ritornammo attraversando quell’argine lungo e sottile che divide i due canali. Bisognava camminare l’uno dietro l’altro. Clara mi disse:
«— Va dinanzi tu, voglio vederti.
«Mi rivolsi a un tratto improvvisamente, e la sorpresi con le lacrime agli occhi.
«— Tu piangi, le diss’io con ansietà. Che hai? Perchè piangi?
«M’interruppe con un sorriso, e mi disse:
«— È effetto del guardare la neve. Come sei poco esperto di lacrime!
«Risalimmo nella vettura che ci attendeva. Il vetturino ci guardò quasi stordito. Eravamo tutti immollati. Ci facemmo condurre a Porta Magenta, e ripigliammo le nostre scorrerie a piedi. La nebbia si era sollevata, e il sole splendeva di tutta la sua luce. La neve pareva fatta di tante pagliuzze d’argento e abbagliava. Gli alberi erano pieni di gazze e di merli, il torrente era gelato da un lato e dall’altro della riva, e scorreva nel mezzo con lentezza; non si vedeva nè un insetto, nè un filo d’erba.
«Clara scorse la prima la nostra capanna, — il nostro tabernacolo, — e fu sollecita a raggiungerla, ma l’uscio ne era chiuso, e non ci fu possibile entrarvi.
«Ella fu sì afflitta di questa contrarietà, che per poco non ne pianse. Riattraversò il ponte di tavole su cui la neve gelata rendeva facile lo sdrucciolare, e abbracciò un albero sotto il quale eravamo soliti ripararci dal sole. Si sedette sulla neve in un punto in cui solevamo sederci e passare lunghe ore sull’erba. Trovammo in una siepe alcune di quella bacche vermiglie che producono le rose selvatiche e che hanno un sapore acre, benchè quasi dolce, e un nido ripieno di foglie secche e di neve. Quante memorie in quei luoghi, quante memorie!
«Clara esclamava tra sè stessa: — Pensare che tutto sarà rifiorito a primavera, che questi luoghi ritorneranno così belli come lo erano nei primi giorni del nostro amore!».
«— Ebbene, le dissi io, questo pensiero non ti conforta?
«— Ma saremo noi ancora così giovani, ancora così felici?
«Non seppi risponderle. Perchè ha ella concepito questo dubbio?
«Nel ritornare raccolse presso la siepe di un giardino un fiore di semprevivo, di quelli di cui si intessono le corone mortuarie.
«— Gettalo via, io le dissi, è un fiore da morto.
«— Perchè? rispose ella con tristezza, se è l’unico fiore che non avvizzisce? l’unico che non muore mai? Il fiore delle memorie è caduco, ma questo sopravvive alla memoria. Quello è per gli affetti vivi, questo per gli affetti sepolti.
«E volle che lo accettassi, e promettessi di conservarlo per memoria di quel giorno.
«— Ritorniamo nella tua stanza, mi diss’ella, voglio passare tutto il giorno con te, sono pazza oggi. Ho freddo, sono irrigidita, accenderemo il fuoco.
«Durante il tragitto della carrozza incominciò a tremare e rabbrividire dal freddo. Volle che facessi passare anch’io le mani nel suo manicotto. Vi sentii dentro alcuni oggetti che aveva raccolto per memoria di quella passeggiata, una foglia di ellera, un ramoscello d’albero. Percorremmo quel lungo tratto di strada senza parlare, vicini, coperti dalla sua pelliccia, guardandoci, colle mani così strette e riunite nel manicotto.
«Accendemmo nella mia stanza un gran fuoco.
«Non aveva mai veduto Clara sì pallida. Come era bella così, come era bella!
«Ella aveva i piedi tutti bagnati.
«— Levati i tuoi stivalini, io le dissi.
«Non voleva.
«— Ti ammalerai. Ubbidiscimi, te li leverò io.
«Mi lasciò fare, benchè quasi con dispiacere. Le sue belle calze erano anch’esse bagnate; glie le slegai, glie le tolsi; ho veduto i suoi piedini nudi, piccoli, torniti, rosati; li ho riscaldati tra le mie mani.
«La sera ci ha raggiunti lì, vicini al fuoco. Avevamo passato tre ore nelle braccia l’una dell’altro. Ella non aveva mai posto tanta dolcezza ne’ suoi abbandoni. Perchè era così mesta? Perchè non sapeva dividersi da me? Perchè è tornata indietro per baciare l’uscio della nostra camera? Io torturo inutilmente il mio cuore con queste domande.
«Ha dimenticato qui la sua crocetta di brillanti: la porterò con me, glie la restituirò ritornando.
«Scrivo un istante dopo che ella è partita; guardo con tristezza la sedia su cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l’ho amata mai tanto come oggi. Oh! che sarebbe di me senza quella donna!»