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dolci degli ultimi, ma non si rammentano con la stessa trepidazione. Allora se ne speravano altri, e più frequenti, e più grandi; la gioventù, la fortuna erano per noi; v’era ancora tempo a saziarsene, ma adesso!… sono le ultime gioie quelle che si rammentano per tutta la vita, quelle che il cuore ha legato a sé colla stessa superstiziosa religione con cui vi ha legato la memoria di un estinto. Non sono i piaceri che incominciano quelli che si rimpiangono, sono quelli che finiscono.

In una natura dove tutto muore, dove tutto ci sfugge, le cose più dilette sono quelle che abbiamo perduto. La fortuna ci fa parere più cari gli oggetti che ci toglie, di quelli che ci dona, ed è forse così che ci riconcilia lentamente con l’idea della distruzione e della morte; nondimeno tristi quelle cose di cui esclamiamo: sono le ultime! Ho veduto spesso sorgere il sole con gioia; ma talora mi sono sentito stringere il cuore, e ho stese le braccia verso di lui nell’ora melanconica del tramonto.


XLIII.


Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario:

«23 dicembre 1863. — Registro questa data e queste memorie due ore prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento; ho il cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perché? Non lo so dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent’anni le lacrime ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste lacrime che non possono trovare una via. Perché non si piange più dopo i vent’anni?

Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei,