Fior di passione (Serao)/Primo giorno
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Primo giorno.
In verità quando io ho visto passare la bellissima donna, bianca bianca nel volto, dai capelli fulvi e crespi che fiammeggiano cupamente, dagli occhi verdi e gelati, dalla bocca rossa e carnosa come un fiore appassionato, dal corpo ondeggiante come quei magnifici serpenti che danzano innanzi alle bacchette dell'incantatore, io mi sono chiesta chi amasse e quale turbine rovinoso fosse il suo amore. Quando l'ho vista passare in mezzo all'amore, fredda, sorda, indifferente, impassibile, negazione dell'amore, gli occhi rivolti al cielo, vivendo serenamente glaciale nel mondo, ma tormentandosi come disperata nella preghiera, mi sono domandata quale storia avesse pietrificato quell’organismo di donna, lasciandole nell’anima solo la tortura di un misticismo impossente.
Ebbene, nel passato, malgrado il suo odioso matrimonio, ella era stata lungamente e tranquillamente virtuosa. L’avevano maritata a un’ignobile duca, giovane, brutto e villano, che si andava mangiando la sua fortuna — e seguitò sempre — con tutte le attrici di terz’ordine, le ballerine dei piccoli teatri, le cantatrici di operette dei baracconi in legno. Lui era fatto così, era democratico in amore — diceva. Soggiungeva che gli piaceva più l’anticamera che il salotto: quindi si asteneva dal far la corte alle amiche di sua moglie, ma era l’amante della cameriera, della sarta, della modista, financo di quella che veniva a stirare a giornata, al palazzo. Questo essere ducale i cui antenati salivano su per dieci secoli, credeva che questo tradimento volgare, laido, di ogni ora non desse diritto di lagnanza a sua moglie. Poichè il capriccio dell’uomo — diceva questo borghese ducale — deve passare. Così era selvaggiamente geloso dei suoi diritti di marito, geloso senza amore, geloso per amor proprio. La duchessa Emma era considerata come la più infelice ma la più dignitosa fra le mogli: lei non sapeva mai nulla, lei non accoglieva le maldicenze, lei non parlava mai contro suo marito, non gli faceva mai scene, sorrideva sempre. Attorno attorno a lei fervevano gli amori segreti, le dichiarazioni audaci, le passioni che ogni donna mal maritata ispira: lei non se ne accorgeva. Se ne accorgeva il duca marito che ogni sera la brutalizzava, chiedendole se il tale era il suo nuovo amante e se lei permetteva che andasse a tirare due schiaffi al tale altro. Lui sapeva bene che non era vero: ma godeva a queste villanate in cui scoppiava tutto il suo istinto di staffiere finto duca.
In realtà quello che sosteneva quella donna eccezionale era il più grande, il più tetro orgoglio femminile. Cadere — tutte le donne cadono e si chiama debolezza. Per lei si chiamava vigliaccheria. Tradire — tutte le donne finiscono per tradire e si dice leggerezza. Per lei si diceva disonestà, senza sotterfugi, senza transazioni. Essere vile, essere disonesta, essere come tutte le altre, giù, a capofitto, brancicando nel fango, sporche le mani, sporca la gonna, sporca l’anima. La sua fierezza si ribellava, irrompente, furiosa contro l’amore che l’avrebbe fatta tale. Invero ella odiava tutti questi uomini che la circondavano, che le facevano la corte, che le scrivevano; li odiava come nemici, come persone accanite contro lei, come cacciatori crudeli. Il suo orgoglio le gonfiava il cuore, pigliando il posto di qualunque altro sentimento. Per orgoglio sopportava quello scostumato marito, per orgoglio non se andava alla casa paterna, per orgoglio sorrideva, per orgoglio non amava, per orgoglio viveva. Tali mostruosità sentimentali esistono — e sono chiamate vizii — ma sono chiamate anche virtù.
Un giorno, questa donna s’incontrò in un amore sincero, profondo e segreto, come ogni donna ci s’incontra una volta nella vita. Lui non parlava, non scriveva, non la seguiva, la schivava, era serio, contegnoso, di una freddezza assoluta: ma l’amava con tutte le forze di un animo giovanile e tutto l’impeto di una passione repressa. Come lo comprese lei, che disprezzava l’amore, che comprendeva solo l’orgoglio? Chi le narrò la storia di quel lungo e ardente e immenso amore, e come ci credette lei scettica? È ignoto. Oh, la psicologia è una scienza perfettamente ridicola; essa spiega le minuzie e le questioni gravi le sfugge, essa nota i particolari, le sfumature, i cambiamenti di tono, ma la figura principale, ma la frase tematica non la spiega. Gira intorno alle difficoltà, si approssima, conquista terreno: a un certo punto si ferma. Quello che avvenne nel silenzio di quell’anima che si apriva all’amore è ignoto. Come l’edificio dell’orgoglio crollò, come tutto fu distrutto, abbruciato, purificato dall’amore, non so dirvi. Voi che amaste, ricordatevi: e voi che non amaste siete indegni di saperlo.
Fra quei due fu lungo, aspro, fierissimo il combattimento. Lui non chiedeva nulla, non si avanzava, non si muoveva, sopportando, taciturno, uno spasimo senza nome, consumando le sue forze a reprimere qualunque manifestazione. Sapeva di essere amato? Forse: ma non mostrava di saperlo. Lei vedeva tutto, comprendeva tutto, si abbandonava giorno per giorno, linea per linea, all’amore, conoscendo quello che faceva, comprendendo il precipizio, spalancando gli occhi per vederlo, innamorata del precipizio, folle della caduta. Un giorno si guardarono, pallidi, senza una parola, scambiando quell’occhiata rossa, succhiatrice dell’anima. Compresero che l’uno camminava verso l’altro, inesorabilmente, contro la volontà, contro la ragione contro tutto. Non una parola: ma l’uno sentiva i passi che l’altro faceva, pur parendo immobile, calcolava lo spazio, calcolava il tempo.
— Il giorno viene, il giorno viene — mormorava la duchessa presa da un terrore che la sconquassava.
— L’ora viene, l’ora viene — mormorava lui, affogato dalla dolcezza.
Insensibilmente e senza che niuno comprendesse intorno, il giorno veniva. Poteva il duca essere più villano, più brutale, buttare il suo nome dietro le donne più volgari: questo non valeva a nulla. Era per l’amore che Emma amava Luciano, non per la vendetta, non per la rappresaglia. Lei non si scusava, lei non buttava la colpa sugli altri, lei si dava perchè voleva darsi, perchè amava, perchè l’amare le pareva la più alta, la migliore cosa della vita. Poteva la duchessa essere fredda, severa, rigida per Luciano, egli non ne soffriva: l’amava, sentiva di essere amato, doveva essere amato.
Era un martedì notte, in un ballo. Vedendosi, di lontano, provarono la medesima sensazione: che l’ora era giunta. Lui si accostò quasi per interrogarla, levandole gli occhi in viso. Lei non chinò i suoi e tranquillamente ad alta voce gli disse:
— Domenica, da me. Alle due.
Un inchino, un saluto; più altro.
Quattro giorni fra il martedì e la domenica, quattro giorni lunghi, eterni, febbrili, deliranti, in cui ad ogni minuto la duchessa Emma si pentiva di quel convegno, decideva di fuggire, si vestiva, poi ristava indebolita, vinta, incapace di rinunciare all’amore. Quando vide partire suo marito per Nizza — una fatalità — volle gridargli di restare, di salvarla, gridarlo a lui, al selvaggio, all’indegno gentiluomo, al marito traditore. N’ebbe disgusto, una nausea tutta fisica, una ripulsione invincibile di donna — fatta sacra da un forte amore. Ella andava su e giù per la casa, come una tigre che ha la febbre, rodendosi, non potendo piangere, non potendo singhiozzare — cadendo poi, per esaurimento, in un torpore dolce, come se si acquietasse un dolore nel sonno, come se la ferita non sanguinasse più. No, non era il mondo esteriore: lei non lo vedeva più. Era il suo spirito sussultante e trabalzante, era dentro sè, era nel cuore, era nel cervello, era nei nervi il tormento volubile che pigliava tutte le forme, dal grave dolore all’acutissimo piacere. Oh la notte tempestosa dal sabato alla domenica, le preghiere alla Madonna, le disperazioni, i subitanei abbandoni, tutto il suo essere che chiamava Luciano e lo respingeva, che malediceva l’amore e adorava l’amore, che trasaliva, fremeva, si scuoteva, tremava nel delirio. Poi, infine, una spossatezza, un’attesa calma — la reddizione.
Alle due il trasalto feroce. Egli veniva. O amore, o amore, o amore!
Dalle due, alle tre, alle sette, a mezzanotte, egli non venne. Non venne più, non venne. Lei fredda nella sua follia, automaticamente, prendendosi la testa fra le mani per poter pensare, diventata di sasso, gli scrisse queste parole:
«Si manca al primo appuntamento solo per la morte».
Infatti egli era morto; all’una, nella sua stanza da letto, mentre prendeva i guanti per uscire. Avea una gardenia all’occhiello. Da tre o quattro giorni era inquieto, agitatissimo. Un mal di cuore, una vena rotta, poichè avevano trovato del sangue sul tappeto, dove era lungo disteso. Questo lo lesse nel giornale, la Duchessa.
Così lei non ama più, non può amare più. Lei vive, ma portando quella sconosciuta tragedia in sè; lei prega, sconvolta da quella morte che sembra un castigo di Dio. E forse più infelice, più sciagurata ancora, lei ama sacrilegamente quel morto, e vive nel desiderio profondo di quell’amore, di quei baci, di quel primo appuntamento, di quel peccato che la morte le ha tolto.