Fior di passione (Serao)/Falso in scrittura
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Falso in Scrittura.
Trovò nel prezioso cassettino di ebano, tutto odoroso di profumi antichi, tutto pieno di morticini sotto la forma di un braccialetto, di un ditale, di un frammento di marmo, di un brandello di merletto, di una perla smarrita, queste tre lettere che formano un morto solo che furono un sol lutto.
12 Maggio...
Egregio signor Cesare — La sua lettera m'ha fatto male. Passai tutta la notte a interrogare la mia coscienza di donna onesta, per sapere che atto, quale parola mia le abbiano permesso scrivermi quel che m’ha scritto. Ella m’ama, signor Cesare, e vuole essere amato da me — da me donna vincolata, malamente sì, ma vincolata. Quale idea ha ella della donna, della virtù, dell’onestà? E in quale pessimo ambiente femminile ha vissuto per creder pessime tutte le donne? E di sua madre, che fu sicuramente una santa donna, se ne ricorda? Mi perdoni la vivacità di queste parole. Fui offesa e se prendessi consiglio soltanto dalla dignità, non le risponderei neppure. Ma la bontà rende mite il mio cuore. Che io mi sappia, nel dolore così forte che lei mi descrive con tanta sincerità di parole, io non ho colpa. Le usai quelle oneste preferenze che si debbono a giovane intelligente e colto; m’intrattenni con lei in quei piacevoli e sereni discorsi che elevano o purificano l’anima, resa troppo volgare dalle materialità della vita; accolsi le manifestazioni della sua stima, le ricambiai con quelle della mia. Tutto era casto, tutto era candido fra noi — ed ecco che lei mi sgomenta con le espressioni infuocate di un amore che non posso permettere in lei, che non troverà mai — no, mai — corrispondenza in me. Ho marito, signor Cesare. Lei pare che lo abbia dimenticato. Io non posso dimenticare.
D’altra parte lei è così solo, così soffocante, così affettuoso che io non oso infierire contro lei. Io stessa, signor Cesare, sono molto sola, molto infelice in questa dura e lunga vita che trascino a stento. Lei sa quale e quante disillusioni ha avuta la mia gioventù. Tutte le mie balde e azzurre speranze caddero come foglie inaridite da un albero decrepito. Io nella vasta solitudine che ho intorno non sento voce amica, non vedo uno sguardo luminoso che mi riscaldi. Il mio sogno è scomparso, l’amore del mio cuore è distrutto. Non so di che popolare questo deserto. Ho freddo nell’anima. E lei rabbrividisce allo stesso brivido. È lei capace di un grande sagrificio, signor Cesare? Vuole ella rinunziare ad ogni idea d’amore nel presente e nell’avvenire? Vuol ella dirmi sì, senza condizioni, senza speranza?
Mi dica sì. Me lo dica quando sia perfettamente sicuro di sè, Allora vedrà che io non sarò ingrata a questo abbandono immenso che ella farà per amore di me. Io ho per quel tempo un bel progetto uno stupendo progetto tutto spirituale, tutta fragranza d’anima. Se vuole, io sarò la sua amica, la sua buona e servizievole amica; lei sarà il mio sincero amico. L’amicizia è un affetto più grave e più serio di quel che pare. Molti — i volgari — lo prendono alla leggera. Noi possiamo comprenderlo. Lei ha un’anima coraggiosa: io sono temprata alla sventura. Ad ambedue un profondo e segreto dolore disfiorò la gioventù: diamoci la mano. Siamo fratello e sorella. Uniamo queste due lente sciagure e derivi da questa unione, non l’amore — che non è possibile — ma almeno la pace ai nostri cuori. Troverà in me il sentimento che non finisce mai, la parola consolatrice, l’azione efficace; troverà me presente ad ogni abnegazione, ad ogni sacrificio. Sarò per lei la madre, la sorella, l’amica. E lei mi prometta di farmi trovare il consiglio saggio, la parola leale, l’azione energica. Io conterò sempre sul suo fermo cuore, lei conterà sul mio cuore affettuoso. Ci sosterremo a vicenda, segretamente, per questa via spinosa e pietrosa. Nulla saprà il mondo, nulla potrà dire di noi. Sarà un segreto altissimo. Sinchè al giorno ultimo della vita, io potrò morire nelle sue braccia, soddisfatta, stringendole mormorando: T’amai, non ho peccato, t’amo.
Solo allora. E mi scriva — Adriana.
25 Settembre...
Cesare, mio re — Vieni. Questa sera egli va a Roma, per quattro giorni. Parte col treno delle dieci e mezzo. Lo accompagno alla stazione. Poi torno a casa; alle undici e mezzo. Tu verrai, o mio fuoco consumatore. Passeremo quattro giorni divini, divini, divini. Fremo al pensarci. Vieni dunque. Pensa come possiamo morire in questi quattro giorni. Non t'amo, non t'adoro, t'idolatro. Sei il mio Dio — Adriana.
4 Dicembre...
Amico mio. Senza dubbio sono giunta alla più dolorosa ora della mia vita. Quello che soffro in questo momento, non posso dirvelo, non posso descrivervelo. È uno strazio senza nome. Sento un unghia che mi lacera il cuore, me lo sento sanguinare: a goccia a goccia perdo il più ricco sangue della mia vita. Non posso piangere, non posso gridare, non posso singhiozzare: affogo. Debbo dissimulare, debbo essere allegra e felice: ma soffoco. Amico mio, è venuta la settimana tragica del nostro amore. Debbo riunire tutto il mio coraggio per dirvi che questo amore deve finire. Deve finire la luce della nostra esistenza, la giocondità della nostra giovinezza. Finire. Morire. Amico mio, è forza che sia così. In questi giorni ho pianto, ho pregato, ho chiesto a Dio la forza del sacrificio. Oggi sono nello spasimo, ma sono decisa. Parla all’anima mia l’alta voce del dovere. Troppo peccammo. Ingannammo un uomo fiducioso e tranquillo, che crede nel mio onore e nel mio amore, che crede nel vostro onore e nella vostra amicizia. Facendo tacere la coscienza, errammo dolcemente ma gravemente. Abbiamo portata la maschera della virtù mentre eravamo colpevoli. Io ho portata in giro la mia fronte pura di sposa mesta, mentre i vostri baci avevano abbracciate le mie labbra. Pentiamoci insieme. Io non voleva, vel rammentate. Ricordate la mia prima lettera. Fui sorpresa, stupidita. Perdetti la testa: ma voi che eravate uomo, perchè non foste il più saggio, il più freddo? Non voleva io. Forse, non vi amava. Vi ho amato poi. Cesare, vi amo ancora, ma vi lascio. Non posso più durare a questa vita di vergogna e di disonore: arrossisco dinanzi a mio marito, dinanzi ai miei servi. Bramo che mi raggiunga l’ultima sciagura, il tradimento svelato. O Cesare, che disperazione! Ci vuol molto coraggio. Aiutatemi in questa opera. Siate calmo. Non vi desolate in mia presenza, non mi scrivete, non venite a casa. Lasciatemi alle mie lagrime notturne, alle mie preghiere ardenti. Non vogliate che io muoia dall’onta e dal dolore. Debbo vivere per quest’uomo che ho ingannato, di cui sono la consolazione. Sono una sposa indegna ma pentita. Vi amo ancora, vi amerò per molto altro tempo, non vi dimenticherò mai. Siete stata la mia gioia, il mio solo amore. Tutto rientra nel passato, ora. Io continuo a vivere, macchinalmente, come un orologio, senza affetti, senza conforti, nell’unica, arida soddisfazione del dovere compiuto. Addio, Cesare; siate felice. Se potete, amate altrove. Ma non potrete, forse. Addio, Cesare — Adriana.
Quanti anni sono trascorsi? Non so; non mi ricordo più. Molti certamente. Ma per quanto tempo sia passato, per quanto io abbia studiato, non mi sono mai potuto accertare in quale delle tre lettere, quella donna mentiva.