Fior di Sardegna/Capitolo XXI
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XXI.
L’indomani sera i novennanti erano tutti arrivati; vicino ai Mannu stava il cappellano con una vecchia sorella e un nugolo di nipotine, con le quali Pasqua strinse subito amicizia. — Il resto della improvvisata «popolazione» consisteva in un miscuglio il più strano e curioso. Famiglie di pastori e di contadini, gente civile e povera gente che aveva portato su tutti i suoi attrezzi entro un canestro; bimbe, signorine, giovanotti, vecchierelle curve che rimanevano tutto il santo giorno a conversare con la Madonnina; e robuste popolane, allegre, rosse, fiammeggianti nella loro camicia bianca e nel corsetto di velluto, che cantavano a squarciagola sotto gli alberi e fra le rocce.
In un batter d’occhio, tutte le stanze vennero pulite, ammobiliate, se così poteva chiamarsi lo strano arredamento compiuto in due ore. Tuttavia dal primo sguardo si indovinava subito se i nuovi inquilini fossero poveri o ricchi, signori o contadini. Nelle stanze della gente per bene, l’arredamento consisteva presso a poco così: in fondo un letto ben coperto, benché composto di tavole poste a traverso di due panchette, i cui materassi la notte si disponevano sul suolo per dormirvi le donne e i bimbi (gli uomini dormivano in... chiesa!); una tavola stracarica di chicchere, tazze, bottiglie e calici, scintillanti nella penombra verdognola, sedie, panche, canestri e panieri ficcati da per tutto, e qua e là qualche oggetto signorile, spaventato di trovarsi in tale ambiente; era o uno specchio, o un quadro, un vassoio elegante, un tappeto da tavola ed anche qualche semplice cortina di «cretonne » ondeggiante su un armadio e magari alla finestra.
Così almeno la stanza dei Mannu, che le domestiche, accortesi del disgusto di Lara, avevano reso il più possibilmente abitabile. Dei rami d’ellera, dei mazzi di fiori di bosco, delle fronde d’elce dalle morbide foglie d’un biondo verdastro, erano state poste da per tutto, e davano tale una grazia e un profumo all’oscura cameretta, che avevano finito col riconciliarsi l’incontentabile e aristocratica padroncina.
In verità! Nessun’altra stanza era meglio arredata, neppure quella del cappellano. In quanto a quelle dei... poveri, oh, quanto Lara ne aveva riso!... Figuratevi! Piantati quattro piuoli in terra, in modo di occupare quasi tutto lo spazio, su avevano formato una specie di ingraticolato di rami e su questi rami steso un alto strato di felci e di foglie. Era il letto col suo bravo cortinaggio composto di un lenzuolo. Sotto il letto stavano le provviste e nel piccolo spazio vuoto nereggiava l’armamento culinario, fra cui imperavano le caffettiere nere come il diavolo.
Vedendo tutto questo, Lara pensò che forse non si sarebbe annoiata come temeva e cominciò a studiare i tipi. Non le piacque nessuno. Le signorine erano tante pettegole, le popolane ignoranti, i giovanotti insipidi, i bimbi maleducati, ecc., ecc., secondo il suo parere. Finì col farsi intimo amico un vecchio pastore che abitava una capanna vicina e veniva ogni giorno alla chiesa: un vecchio pastore, dal volto color rame e vestito di pelli come un eschimese. Sì, Lara si divertiva più nel visitare la capanna e sentire le stravaganze del vecchio pastore, che star lì a chiacchierare sotto gli alberi, sparlando del prossimo lontano!... Le altre ragazze la rincorrevano, la chiamavano selvaggia, la pigliavano a forza tra loro, conducendola ad accendere i falò sulle cime più pericolose, ma con tutto ciò, non si guadagnavano la sua simpatia. Alla fine, un giovine le disse: — Donna Lara, Lei sfugge la «società!» dunque, o è innamorata o crede di degradarsi rimanendo fra noi che non siamo ricchi e nobili come Lei!
Lara si sentì offesa, tuttavia non disse nulla, ma da quel momento rimase in «società» e si mostrò allegra e democratica all’ultimo grado. I giorni passavano, azzurri, deliziosi. Si ascoltava la messa assai presto, si cucinava all’aria aperta, talchè l’uno sapeva ciò che l’altro preparava pel desinare, si pranzava sotto gli alberi, si correva pel bosco, si ballava, si cantava, si rideva, ma il più grande divertimento era la notte, allorchè sulla spianata splendeva il fuoco e intorno intorno vibrava nella oscurità stellata, sotto gli alberi fantastici, l’allegria pazza dei bimbi e l’allegria voluttuosa delle fanciulle sentimentali.
L’organino e la chitarra gemevano nella sera tiepida e vellutata, le vecchie storie passavano attraverso i guizzi rossi delle fiamme e sparivano all’ombra dei boschi, il venticello olezzante di lentischi e di giunchi susurrava un’armonia lontana, e il canto appassionato delle poesie sarde, s’innalzava nel silenzio delle montagne come un fremito di amore, con scoppi di baci ardenti, dati al chiaro di luna, e lento rigare di lagrime sui volti pallidi e dolenti.
E Lara era ricaduta nei suoi sogni. Aveva scordato tutti i dolori trascorsi, e sognava ancora l’amore! L’aria della montagna aveva fatto rinascere nel suo cuore il fiore della gioventù e dei sogni, poco importava che questo fiore fosse triste come il giacinto dell’inverno; era sempre fiore! A poco a poco, avvezzatasi all’orribile stanzetta addossata alla chiesa, non v’entrava che alla sfuggita di giorno.
Di notte dormiva poco, così sul suolo, sopra un solo materasso e con un po’ di freddo filtrante attraverso le canne del tetto nero, ma nelle sue lunghe veglie ella sentiva indistintamente il susurrìo dei boschi e le campanelle delle gregge pascolanti sotto la rugiada, — strana musica lontana, vaga melanconia, che le cullava il pensiero intorpidito e gettava una specie di velo sovra i suoi ricordi angosciosi.
Un tarlo rosicchiava le travi del tetto. Il suo stridìo rauco, debole, incessante, si frammischiava agli altri rumori della notte e dava uno strano pensiero a Lara. Chissà da quanto quel tarlo lavorava lassù... forse da secoli; e secoli ancora occorrevano prima ch’esso riuscisse a rompere il legno, ma vi sarebbe pur riuscito; Lara ne era certa e provava della simpatia per quell’essere invisibile così costante, così laborioso, per quanto la sua fosse un’opera cattiva. — La mattina, cessato appena il tintinnìo delle pecore pascolanti, risuonava il campanello stridulo che annunziava la messa, — perchè la grossa campana non la si adoperava che per la festa solenne, — ma spesso Lara non si muoveva dal suo giaciglio. Sentiva la messa attraverso la parete e il mormorìo del rosario detto dalle devote a voce alta era una nuova musica non meno caratteristica delle altre. Appena levata, Lara faceva teletta e colazione e poi se la svignava ai boschi; batteva tutti i luoghi praticabili e più d’una volta si era smarrita. Non voleva confessarselo, ma le sarebbe piaciuto immensamente qualche avventura di banditi o che. Ella non aveva paura; ma per grazia di Dio le montagne sarde non sono poi così pericolose come vengono immaginate, e Lara non incontrava nessuno nelle sue escursioni; solo capre vaganti pei dirupi, e gazze sugli alberi.
Nel meriggio si coricava in qualche luogo molto pittoresco, sul musco olezzante, e pigliava la rivincita dell’insonnio notturno; ritornava alla stanzetta tutta coperta di foglie, di spighe silvestri, i capelli arruffati e le mani nere, e rifaceva la teletta, semplici telette che pure le procuravano l’invidia e l’ammirazione delle altre ragazze, la cui compagnia doveva subire per tutto il resto del giorno. I giovanotti le facevano la corte, ma lei non se ne accorgeva, ballava e rideva e parlava male del prossimo, come tutte le altre, ma in fondo restava un enigma per i signorini che andavano pazzi per i suoi occhi profondi e pensosi che non si rivolgevano verso i loro come quelli delle altre ragazze.
I più forti piaceri Lara li provava all’imbrunire; là, nella oscurità azzurrognola della chiesa, quando i ceri si consumavano splendendo col crepuscolo e olezzando con l’incenso, e la mesta voce del sacerdote narrava le lodi della Madonnina bianca dai grandi occhi azzurri. Lara chinava la testa sulla balaustrata nera e provava tutto un incanto mistico, soave. Un fremito le passava per le spalle, e la sua mente. Instintivamente, ritornava ai vecchi sogni, ma puri e sereni; visioni di neve, baci di angeli, fruscii di fiori bianchi ondeggianti alla brezza gelida di una notte cerea, dal cielo color di latte e le montagne coperte di veli... ecco ciò che Lara provava. All’uscire di chiesa il suo volto pallido e i suoi occhi avevano qualcosa di strano; una luce ammaliante che rifletteva le tinte del vespero di rosa e il tremolio delle chiome bionde degli alberi, talché uno studente, un piccolo poeta bruno e fantastico, se ne era innamorato perdutamente, ma quando si arrischiò a farle la sua dichiarazione, Lara lo guardò con aria così beffarda e tranquilla, che lui fuggì pei boschi pensando: — Sembra un angelo, ma è un demonio! — Incontrò una servotta brutta che ritornava dal ruscello e per vendicarsi di Lara le offri il suo cuore. La ragazza l’accettò! Allora il piccolo poeta si scordò di Lara e pensò per la serva: — Pare un demonio, ma è un angelo!....
L’altro piacere di Lara era il falò che ogni sera si accendeva sulle cime della montagna. Ognuno doveva portare il suo ramo sino alla cresta e adattarlo sul mucchio. Accesa la catasta, tutti si sparpagliavano qua e là sulle rupi, a gruppi, a due a due, e chiacchieravano mentre il fuoco ardeva là dove la neve aveva regnato, mandando con le sue scintille il saluto della montagna alle valli, alle pianure, ai villaggi e alle altre montagne tinte di viola, d’azzurro e di rosa dallo splendido imbrunire. La scena era superba, sublime! A misura che la sera si avanzava, larghi bagliori d’oro guizzavano sui boschi sottostanti, sulle rupi di granito, sulle macchie di lentischio; le persone diventavano nere sullo sfondo azzurrino del cielo, la brezza passava attraverso le vesti e i capelli; fulgidi scintillii brillavano negli occhi, nei denti, nelle unghie, nei capelli di tutti, e la montagna taceva e i poeti sognavano appoggiati alle rocce e spesso saliva dal paesaggio deserto un lontano squillare di avemmaria vibrato, vagante agli ultimi riflessi della sera, che dava un fremito, un verso, un lampo di poesia anche ai più ignoranti e positivi. — Lara si trovava nel suo ambiente. Pensava che queste bellezze sovrumane della natura sono le sole feste, le sole gioie che la Sardegna solitaria e deserta può dare ai figli suoi: pensava che vale più sulla vita una sera passato in montagna, così vicino al cielo, così sopra del mondo, che cento notti e mille giorni di feste cittadine, e sorrideva ebbra di azzurro e di solitudine.
Ma in fondo provava una lieve sfumatura di sconforto; avrebbe voluto che qualcuno lì vicino avesse partecipato alla sua ammirazione, alla sua rosea filosofia di diciotto anni, e guardandosi attorno scoteva lievemente la testa bruna.
No!, nessuno poteva capirla, nessuno fra quelli che la circondavano! — in quei momenti non pensava neanche a Mariarosa, perché sapeva che lei meno delle altre l’avrebbe capita, pure desiderava qualcuno... qualcuno!... La figura di Nunzio brillava un momento al suo pensiero, ma tosto un amaro ricordo la cancellava con larghe strisce nere; era la mano di don Salvatore che faceva ancora ardere le guance della nostra fantastica eroina.