Filottete (Sofocle - Romagnoli)/Prefazione
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Il Filottete fu rappresentato nel 409, quando Sofocle aveva già da un pezzo superata l’ottantina. Ma, al pari dell’Edipo a Colono, che fu composto anche dopo, non presenta la menoma traccia di senilità né di stanchezza. È un lavoro pieno, ispirato, sicuro, nel quale si mostrano in perfetto rilievo tutte le piú belle caratteristiche della drammaturgia sofoclea.
Per intenderle ed apprezzarle debitamente, converrà confrontare questa tragedia con la vulgata tradizione mitica, e con le due tragedie di soggetto analogo che la precedettero. Giacché, senza contare un altro Filottete dello stesso Sofocle, in cui però l’azione si svolgeva in Troia, dopo che l’eroe era stato già ricondotto al campo dei Greci, avevano composte tragedie sullo stesso argomento, tanto Sofocle, il maestro, quanto Euripide, il piú giovine rivale di Sofocle.
Nella Piccola Iliade, poema oggi perduto del Ciclo epico, a riprender Filottete da Lemno, andava Diomede; e lo stesso personaggio appariva in un famoso quadro di Polignoto.
Eschilo sostituiva a Diomede lo scaltro Ulisse. Cosí, di fronte al terribile arciero, reso grande dalla sventura, veniva a trovarsi una figura che poteva in certo modo esserne l’equivalente sulla bilancia dell’equilibrio drammatico. In Eschilo, che, come vedemmo1, accettava docilmente i dati della tradizione mitica, questa sostituzione era un tacito anticipato omaggio alla concezione sofoclea del contrasto.
Piú numerose furono le sostituzioni di Euripide.
Egli accettò, prima di tutto, l’Ulisse di Eschilo, ma gli diede per compagno Diomede. Poi inventò un nuovo personaggio, un pastore, che durante i lunghi anni di abbandono sarebbe andato a trovare e consolare Filottete. Infine, immaginò che, secondo le profezie, dei due avversarii che contendevano in lotta mortale su la pianura di Troia, avrebbe vinto quello che fosse riuscito ad ottenere la collaborazione di Filottete. Sicché, insieme con l’ambasceria degli Achei, ne faceva arrivare a Lemno un’altra dei Troiani; e lo scaltro Ulisse doveva sventare anche questo pericolo. Infine, immaginava che Atena, per far sí che Filottete non concepisse sospetti alla vista di Ulisse, gli mutava l’aspetto.
Tutte innovazioni, come si vede, poco felici.
Il Diomede aggiunto all’Ulisse, costituiva un puro e semplice doppione: e c’è da scommettere che sarà stato poco piú d’un χωφόν πρόσωπον, un personaggio muto, simile, su per giú, al Pilade delle Coefore. Il personaggio del pastore non faceva che stemperare e svalutare il tèma profondamente poetico della solitudine di Filottete. L’ambasceria dei Troiani era un elemento esterno, che non poteva recare sostanziale arricchimento alla materia drammatica. E, infine, la metamorfosi d’Ulisse, che sarebbe stata tollerabile in un componimento epico, o, comunque narrato, introduceva in una composizione drammatica un elemento d’inverisimiglianza e di debolezza, perché alla sensibilità degli spettatori non poteva riuscire molto accetto quell’Ulisse che non aveva le sembianze d’Ulisse.
Sofocle, invece, pur non rinunciando al personaggio di Ulisse, gli aggiungeva un compagno nuovo, Neottolemo, che era andato a Troia solamente dopo la morte di Achille, e dunque era ignoto a Filottete. Cosí riusciva naturalmente eliminata la inverisimiglianza che Eschilo non s’era neppur curato di mitigare, e che Euripide aveva tentato di correggere cosí poco felicemente.
Ma Sofocle dové essere indotto al mutamento non tanto da questa considerazione d’ordine razionale, quanto da una intuitiva aderenza al principio fondamentale della sua drammaturgia, cioè al contrasto. Perché Neottolemo, non solo non è un doppione d’Ulisse, ma pel suo carattere forma con Ulisse un contrasto che si va via via sviluppando durante tutta la tragedia, sino a diventarne l’elemento principale e determinante.
Un’altra importante innovazione effettuò Sofocle nella costituzione del coro. Tanto Eschilo quanto Euripide l’avevano composto di isolani di Lemno. Ma questo partito, che certo si offriva per primo, distruggeva, ancor piú che non facesse l’unico personaggio di Attore nel dramma d’Euripide, il tèma della solitudine di Filottete. Vero è che Euripide cercava, anche qui, di rimediare, facendo sí che il coro, alla sua prima uscita, spiegasse per filo e per segno come in dieci anni aveva trascurato di venire a trovare il misero eroe abbandonato; ma qui, se in altro caso mai, il rimedio era davvero peggiore del male. E Dione Crisostomo, a cui dobbiamo preziose notizie intorno ai due Filotteti perduti, e la parafrasi delle prime scene di quello d’Euripide, osserva giustamente che fece meglio Eschilo, che non diede alcuna spiegazione, e tirò dritto.
Sofocle, invece, sostituí agli isolani dei compagni di Neottolemo; e sanò cosí di colpo il difetto.
E, anche qui, la mira di Sofocle, o, almeno, la mira principale, non fu tanto quella di evitare la inverisimiglianza, quanto quella di liberare da ogni impaccio, anzi di intensificare, il tèma della vita solitaria: il tèma dell’uomo abbandonato alla mercè degli elementi e delle fiere, e costretto, a provvedere, senza alcun aiuto dei suoi simili, alla propria salvezza e al proprio sostentamento: il tèma di Robinson, che sarà sempre ripreso volentieri dagli uomini, perché rievoca nelle piú profonde latebre della loro coscienza il ricordo terribile e profondamente poetico dell’antichissima vita della stirpe, quando l’uomo, in lotta perpetua col mondo indifferente od ostile che lo circondava, moveva i primi passi su l’ardua lunghissima via dell’incivilimento.
E straordinaria è la maestria onde Sofocle svolge questo tèma, in maniera appropriata all’arte drammatica, senza affaticar troppo gli spettatori, distribuendone le variazioni in diverse parti della tragedia, e presentandole, ora in forma puramente lirica, ora piú volgente verso il dramma, e affidandole, ora a Filottete, ed ora al Coro. Proposto appunto dal Coro, nel primo canto intorno all'ara, permèa tutto il dramma, sino all’ultimo addio di Filottete, in cui è rievocata, con pochi felicissimi tratti, la selvaggia e pittoresca vita dell’isola.
Ché anche il paesaggio è, ad ogni passo, suggerito alla fantasia degli spettatori. Tutto ciò che in un dramma moderno sarebbe relegato nelle didascalie e affidato alla genialità d’un allestitore scenico, qui è consegnato alla parola. Accenni, tocchi, brevi figurazioni, integrano via via la scena, che dovè essere, lo ricaviamo appunto dalla frequenza di questi accenni di paesaggio, breve e sintetica. E quasi direi che se non ci fosse la sostituirebbero.
Su questo sfondo impareggiabile, si muovono i personaggi, che per evidenza superano forse tutti gli altri personaggi di Sofocle.
La figura che ha meno rilievo, è quella di Ulisse. O, per meglio dire, è rappresentata con tratti troppo generici, e risulta troppo simile a tutti gli altri Ulissi frodolenti della commedia attica. I suoi sarcasmi contro il misero Filottete sono quanto si può immaginare di piú odioso. Del resto, qualche tratto personale non manca neppure qui, come nella osservazione, verissima, implicita nelle sue parole, che da giovani si crede all’onestà e alla lealtà degli uomini; e poi, a mano a mano, la vita insegna a diffidare di tutto e di tutti, e a non credere neanche ai piú santi princípii.
Le due grandi figure sono invece Neottolemo e Filottete.
Neottolemo è d’animo generoso e leale. E, quindi, la via subdola che Ulisse ha scelto per trionfare di Filottete, gli repugna. E sin da principio oppone obiezioni e recalcitra:
«Le cose che m’indignano a udirle, figlio di Laerte, aborrisco poi compierle. Non è mia indole ricorrere a male arti: né mia, né di chi mi diede la vita. Quest’uomo son pronto a prenderlo con la forza, ma non già con la frode. E preferisco operare onestamente e non riuscire, anziché conseguire l’intento con male azioni».
L’abilissimo Ulisse adopera tutta la sua sottigliezza per convincerlo. E il giovinetto, sebbene impari a questa lotta, seguita ad interpungere il suo discorso di obiezioni ed opposizioni.
— Imponimi qualsiasi altro obbligo, e non la menzogna!
— Perché non tentare di convincerlo, invece d’ingannarlo?
— Non ti sembra turpissima cosa la menzogna?
Ma la sua inesperienza dialettica deve infine cedere alle argomentazioni dello scaltrissimo tentatore; sicché s’induce all’azione vergognosa, con parole che dimostrano però chiaro come nel profondo dell’animo egli non sia né convinto, né tranquillo: «E sia: bandirò ogni pudore, e farò quello che dici».
E. infatti, trae nell’inganno il misero Filottete. Si presenta a lui, si svela per quello che è veramente, Neottolemo figlio di Achille, e gli fa credere che abbia abbandonato il campo dei Greci per un grave sopruso patito. Acquistata la sua fiducia, promessogli di ricondurlo in patria, riesce perfettamente nell’intento. Già Filottete gli ha consegnato l’arco, già lo segue verso le navi, quando la coscienza turbata strappa al giovine una esclamazione: «Ahimè! E adesso, che cosa dovrò fare?»
E alle angosciose domande di Filottete. che a mano a mano viene concependo gravi sospetti, dice esplicitamente tutta la verità. «Nulla ti celerò: conviene che tu venga a Troia, agli Achei, agli Atridi».
Ai lamenti, alle recriminazioni, ai lagni, alle preghiere di Filottete, si commuove, dubita, sta per cedere.
Ma sopraggiunge Ulisse, lo rampogna, lo dissuade. E perché Filottete non si vuole convincere a seguirli, dichiara che di lui non c’è bisogno, che basta l’arco; e trascina via Neottolemo. Ma questi lascia presso Filottete i suoi compagni. Mentre si fanno i preparativi per la partenza, tentino di convincere il misero.
Filottete s’irrigidisce nella sua volontà. Ma ecco torna improvvisamente Neottolemo. seguito da Ulisse. La lealtà dell’animo suo ha trionfato. Egli restituirà l’arco a Filottete. Gli argomenti di Ulisse non hanno piú efficacia, le rampogne non trovano ascolto, le minacce sono rintuzzate con piú fiere minacce. Come una lama piegata a forza, il carattere di buona tempra ritorna d’un balzo alla sua prima direzione.
E cosí, dinanzi ai nostri occhi, si è svolto, con tutti i suoi particolari, i suoi ricorsi, le sue esitazioni, una vera e propria crisi di coscienza. Ripensiamo un momento alla rigidità dei caratteri eschilei, e vedremo quanta distanza separi le due arti.
Ho parlato di crisi di coscienza. Tale è infatti, punto per punto, quella di Neottolemo. Ma la moderna o modernissima terminologia non deve indurci in errore. Oggi v’è una drammaturgia e ci sono drammaturgi che sono, per dir cosí, specializzati in tale ramo, del resto interessantissimo, della psicologia drammatica. Ma Sofocle, evidentemente, non volle propriamente dipingere una crisi di coscienza. Egli persegui l’intento fondamentale della sua drammaturgia, di figurare anime in perenne mobilità. Esempio massimo, in questa tragedia, il protagonista, Filottete.
Filottete è da dieci anni nell’isola deserta di Lemno, dolorando per la sua piaga, procurandosi a stento il vitto con l’arco, soffrendo privazioni d’ogni sorta. A rarissimi intervalli, capita qualche navigante sperso, che però non si assume l’incarico di ricondurlo in patria. Ora ha quasi dimenticata l’effigie umana.
Ed ecco apparire improvvisamente Neottolemo. Vista che già di per sé lo allieta: tanto piú che il giovane e i suoi compagni indossano vestiti di foggia greca.
E Neottolemo parla: è greco! L’animo dell’abbandonato s’empie di gioia per il dolce suono della sua terra.
E apprende allora che è il figlio di Achille, d’un suo prediletto compagno d’armi. Ma Achille è morto. Neottolemo è orfano. Filottete incomincia a sentirsi un po’ suo padre; e d’ora in poi non lo chiamerà piú con altro nome che con quello di figlio. E gli narra le sue sciagure, e gli palesa l’odio suo mortale contro gli Atridi e contro Ulisse. E sente che anche Neottolemo è stato offeso mortalmente da quelli — sicché l’odio comune stringe ancora di un anello l’amore che egli va concependo pel giovinetto.
Lo prega allora di ricondurlo in patria; e Neottolemo acconsente a concedergli la grazia che tutti gli hanno negata: lo ricondurrà.
A questo punto, il durissimo Filottete si ammorbidisce, ed ha tocchi tutti tenerezza. Vuole entrare un’ultima volta nella caverna che per tanto tempo ha visto il suo dolore, e vuole che Neottolemo lo accompagni.
Quando poi escono, lo coglie un accesso del male. E sviene, col terrore che Neottolemo possa abbandonarlo. Ma quando si rianima, lo trova fedelmente accanto a sé. E allora il giovinetto diviene per lui quasi un dio: egli l’adora. E, con osservazione finissima, Sofocle fa sì che in questa adorazione egli divenga quasi importuno. Neottolemo dice ai suoi compagni che aiutino l’infermo a camminare. Ma Filottete non vuole, perché teme che il fetore della sua piaga possa disgustarli; e vuole invece appoggiarsi proprio a lui, Neottolemo. E l’esigenza spesso impronta che tutti ci permettiamo verso le persone carissime, per la sicura coscienza che anche noi faremmo per esse gli stessi sacrifizi che esigiamo da loro.
Ed ecco, quando nell’animo suo, esulcerato dalla malignità umana, indurito dalla lunga solitudine, ha profusa tutta la sua luce questa improvvisa freschissima aurora, ecco il crollo fulmineo, incredibile. Neottolemo è un infame come tutti gli altri, è un mentitore, un traditore. — La desolazione del misero empie anche noi d’indicibile angoscia.
Ma neppure in questo sentimento di desolazione rimane fisso l’animo di Filottete. Già nella stessa confessione, e poi nelle esitazioni di Neottolemo, sono i germi di nuovi cambiamenti, di una risorgente speranza. La venuta di Ulisse scancella questa, e fa riavvampare il fuoco non mai spento dell’odio. Sinché, al ritorno ultimo di Neottolemo pentito, dopo una breve fase di incredulità alle sue nuove proteste, l’animo del derelitto si riapre di nuovo alla speranza, poi si adagia alfine nella sicurezza. Ed è qui notevole un altro finissimo tratto. Neottolemo ha già riconsegnato l’arco: però scongiura Filottete di venir di buon grado a Troia. Ma quegli non solo rifiuta, bensí richiama Neottolemo all’integra osservanza delle sue promesse, e vuole essere ricondotto alla sua patria. E non prega piú: ordina. Ma questa esigenza non è tenera, come l’altra. Nelle sue continue esitazioni, Neottolemo ha già svelata una certa abulia. Contro questa batte oramai con tutta la sua forza il carattere volontario e dominatore di Filottete.
E questa figura illustra dunque, meglio di ogni altra, a quale scopo supremo convergano insieme il genio oscuro o semicosciente, e la lucida coscienza artistica di Sofocle: a rappresentare i movimenti, la intima vita delle anime.
E questa continua mobilità riesce specialmente impressionante, perché ricamata sopra una trama d’immobilità e di durezza, per la quale Filottete si mostra degno fratello degli eroi d’Eschilo. E, forse, in questa armonia di contrasti, in questa concordia discors è da ricercare una delle principali ragioni del fascino che ci avvince alla figura di Filottete.
Solo un punto offende la sensibilità di noi moderni: ed è l’intervento di Ercole. Questa soluzione soprannaturale, tanto meno ci piace, quanto piú ovvia si presenta la soluzione umana. Se infatti Filottete aderisse alle logiche ed eloquenti preghiere di Neottolemo, la sua figura non ne riuscirebbe impoverita, bensi piú convincente e simpatica. Su questa linea il Goethe modificò il finale della sua Ifigenia di fronte a quella di Euripide.
Forse a Sofocle sembrò piú tragico questo irrigidimento della volontà di Filottete, cosí assoluto che valesse a scioglierlo solo l’intervento d’una divinità. Irrigidimento eschileo.
Ed è abbastanza interessante osservare come in questo finale d’una delle sue ultime tragedie, si incontrino gl’influssi del maestro e del giovine rivale di Sofocle.
E un altro vestigio euripidesco è da ravvisare nel tranello del finto mercante: tranello che, sebbene dia una certa animazione alla parte centrale, è però sostanzialmente superfluo all’economia drammatica. Toglietelo, e l’azione si svolge non meno logicamente, e con maggiore omogeneità. Ma, effettivamente, anche qui, l’esempio del giovine Euripide, tanto contagioso che influí anche sul suo piú feroce nemico, Aristofane, s’impose anche al suo maggiore rivale tragico. Sofocle si lasciò trascinare dalla passione dell’intreccio, o, meglio, dell’intrigo per l’intrigo. Solito inconveniente dell’arte. La funzione crea l’organo; e l’organo, una volta sviluppato, crea la funzione.
E in un altro punto Sofocle sembra rimanga vittima della sua stessa concezione drammatica. Abbiamo visto come egli aveva mirato via via a ridurre a funzione drammatica anche le parti liriche, con vantaggio innegabile della omogeneità e della efficacia complessiva. E qui, applica, o, meglio, si lascia prendere la mano da questo principio, quando forse meno conveniva farlo: quando era balenata alla sua mente la ispirazione lirica piú felice di tutta la sua opera: la invocazione al sonno. Tanto meravigliosa, che, anche allo stato di spunto, ci incanta ed avvince nelle spire d’una inesprimibile magia. Ma il poeta, invece di lasciarla svolgere liberamente su le ampie vie della musica, súbito la svia e l’aduggia nell’ufficio drammatico.
Am Ende hangen wir doch ab |
Ma, lasciate oramai da parte le analisi critiche, abbandoniamoci interamente alla tragedia, al fascino che si sprigiona da ogni sua scena. Dopo tanto volo di secoli, dobbiamo ancora ammirarla come una di quelle opere, rarissime nella storia di tutte le arti, in cui un grande artista, giunto all’apice della sua carriera, superata ogni difficoltà, risoluta ogni incertezza, coglie tranquillamente, nel proprio campo, i frutti degli alberi da lui seminati, da lui coltivati con lunga pazienza e con amore infinito.
Note
- ↑ Vedi, in questa collezione, l’Eschilo, vol: I, pag. XIX.