Ettore Fieramosca/Capitolo XI
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Capitolo XI.
La cattura di Pietraccio e della madre era un accidente che poteva aver gravi conseguenze per Martino, e turbare l’esecuzione dei progetti di D. Michele: se n’erano fatta parola scambievolmente ed erano d’accordo che bisognava far fuggire l’assassino onde non venisse condotto a Barletta, ove avrebbe potuto palesare la condotta tenuta dal capitano. Ma il modo non era facile trovarlo senza che n’avesse il carico chi lo doveva guardare.
Quando Fieramosca era venuto per ottener l’ingresso del carcere, turbato com’era per la quistione avuta con Fanfulla, non potè così alla prima giudicare se ciò potesse guastare od aggiustare le cose sue. Ebbe però bastante talento per prender tempo confidando nell’astuzia del suo nuovo amico, e risalì da lui sperando avrebbe trovato il modo di sbrigarlo da quel viluppo. Quando D. Michele udì la domanda di Fieramosca disse:
— Se l’avessimo pagato non ci avrebbe serviti meglio. Lasciate fare a me, Conestabile, e vedrete se so lavorar pulito. Ma.... ricordatevi!
— Resta inteso, non occorr’altro. Però.... le monache....
— Le monache, rispose D. Michele ridendo, non le toccheremo; state pur quieto. Ora datemi la chiave della prigione ed aspettatemi qui.
— Prese le chiavi, scese al pian terreno ed aprì la porta piano piano: tese l’orecchio, ed udendo che la madre ed il figlio stavan parlando, si fermò sul primo scalino dei quattro o cinque che scendevano in quella buca, di dove allungando il collo poteva vedere ed udire que’ due meschini.
La donna era stata deposta in terra col capo appoggiato ad una trave che giaceva in un angolo, ma per l’angoscia essendole saltata una febbre gagliarda, nel divincolarsi era caduta colla fronte sul tufo umido del suolo, nè aveva avuto mai forza di rialzarsi. Il figlio colle braccia legate sul petto in modo che non poteva muover un dito, s’era provato, ma inutilmente, d’ajutarla; alla fine per disperato se l’era posto ginocchioni accanto, e girava l’occhio istupidito ora sulla madre, ora per le mura.
La donna tentava ogni tanto di alzar la testa, ma era troppo debole per farlo da sè. Con molto stento riuscì pure alla fine al figlio di sottentrare con un ginocchio in uno di quegli sforzi, e così la venne a rimettere nella sua prima posizione; ma questo moto le cagionò tanto dolore che portandosi le mani al capo con un gemito prolungato disse:
— Maledetta la ronca del villan calabrese! Ma se il diavolo mi lascia due minuti.... voglio che sappi una volta chi sei.... Che varrebbe pregar Dio e i santi? Veramente m’han dato retta quando li pregavo!... E qui, alzando a stento le pupille spente verso la vôlta, profferì bestemmie da far rizzare i capelli in capo a tutt’altri che a Pietraccio.
Eppure (seguitò a dire mutando quella disperazione feroce in un’altra più dolorosa ed egualmente profonda) eppure anch’io avevo sperato nel perdono!... quando cantavo coll’altre monache!... Oh maladetta l’ora che misi piè su quella soglia!... Ma che serve! Ero del diavolo prima di nascere;.... ho provato a fuggirgli.... ecco come ci son riuscita. E di nuovo alzati gli occhi al cielo, disse con una espressione che non si può descrivere: — Sei contento? — Poi volta al figlio: — Ma se puoi uscir di qui.... se sei uomo.... chi è causa della mia morte e della tua rovina arderà con me sempre, se i preti dicono il vero. — Quella notte, a Roma, ch’io ti posi accanto di Tor Sanguigna perchè ammazzassi quel gentiluomo, e tu, pazzo, gridasti prima di dargli, e così ti presero e ti conciarono come tu sei.... Era Cesare Borgia!.... Quando costui studiava in Pisa (stavo in monastero), s’innamorò di me, io pazza birbona! di lui. Sapevo io chi era?... Una notte venne a me.... Aveva una mia figlioletta di sette anni.... si risentì... dormiva in una cameruccia vicina.... lo vide scavalcando per una finestra; si cacciò a gridare.... guai a lui se l’avessero scoperto.... era vescovo di Pamplona di fresco.... le gettò i cuscini sulla testa.... e su colle ginocchia.... Mostro! io caddi in terra.... Giurami per tutto l’inferno, per la morte mia, che l’ammazzerai; accenna col capo che lo giuri.... almeno questo....
L’assassino cogli occhi orribilmente spalancati sulla madre crollò il capo ed accennò che farebbe, ad essa levandosi dal collo una catena che aveva sotto la camicia, soggiunse:
— E quando gli avrai spaccato il cuore, digli: Guarda questa catena.... sbattigliela sugli occhi.... te la rende mia madre.... Non ho finito... Oh un momento ancora! poi non ti temo.... Quando mi riscossi mi trovai stesa sul lettuccio, e tu sei.... ho non posso dirlo.... accanto alla povera Ines. Oh com’eri bella!... ed ora sei in paradiso!.... Ed io! io! perchè ho d’andare all’inferno?... quest’ultime parole furono accompagnate da un urlo che fece tremar la vôlta. Era morta.
Pietraccio non si commosse gran fatto; con guardo stupido pose mente ai moti convulsi della madre. Quando la vide spirata, s’accovacciò nell’angolo più lontano, come fa una fiera, che chiusa in gabbia con un cadavere della sua specie, prova ribrezzo e lo sfugge.
Tutto quel racconto fatto ininterrottamente ed in una specie di delirio non era stato inteso da lui se non in parte. L’idea che gli rimanea più viva, era che avea a vendicarsi di Cesare Borgia per più ingiurie, ma principalmente, a parer suo, per essere stato ridotto ne’ termini in cui si trovava dalla barbarie di costui.
Il racconto medesimo aveva però ben altrimenti colpito lo sgherro del Valentino. Chi avesse potuto vederlo in quel momento avrebbe creduto che ogni parola di costei gli togliesse una porzione di vita, tanto si veniva cambiando in viso. Quando la donna cadde sul pavimento, mancò poco non accadesse a lui lo stesso.
Scese mal fermo sulle gambe, e colla mano che gli tremava tagliò le corde che legavano Pietraccio. Fissò gli occhi un momento sulla catena che già aveva al collo, poi disse:
— Or ora verranno a visitarti un gentiluomo ed una donna. Voglion liberarti, ma che non appaja ciò sia opera loro. Sii accorto e mentre vorranno vedere se la donna si possa ancora ajutare, prendi la scala, fuggi, e fa’ di non esser colto: sei già condannato nella testa.
Dette queste parole con grandissima fretta, come avesse avuto fuoco sotto i piedi, gettò alla sfuggita uno sguardo di ribrezzo sulla donna, lasciò il suo pugnale nelle mani di Pietraccio, ed in un lampo si trovò nella camera del Conestabile. Si dirà a suo luogo quanto ciò che aveva veduto ed udito dovesse turbare anche un ribaldo par suo.
Il lettore forse dirà: Ma insomma non la finiamo mai con queste malinconie di assassini, traditori, prigioni, morti, diavoli e peggio?
Se noi abbiamo indovinato la sua mente, egli con buona licenza non ha indovinato la nostra che era appunto in questo momento di finirla, mandar al diavolo D. Michele e Pietraccio e Martino (che a dirla in confidenza cominciavano a divenir fastidiosi anche a noi) e pregarlo a saltar nel bel mezzo della rôcca di Barletta che troveremo assai mutata da quando ci siam venuti l’altra volta con D. Michele.
Il cortile, le logge erano tese di parati di seta di tutti i colori con ghirlande di mortella e d’alloro, che formavano festoni a cifre; e tutte le bandiere dell’esercito pendevano ondeggianti dai balconi e dalle finestre. La turba composta di spettatori oziosi e d’uomini che s’affaccendavano a metter in ordine l’apparato, brulicava, ora stringendosi, ora allargandosi per le scale, pel cortile, per le logge. Soldati, operai, servitori, ragazzi andavano e venivano carichi d’attrezzi, di scale, di suppellettili d’ogni sorta, per fornir la mensa od adornar il teatro. Entravano grasce, frutta, vini, cacciagioni, di che i primi della città e dell’esercito a gara presentavano il Capitano di Spagna. Era un andare e venire, un gridare, un chiamarsi, in conclusione, un disordine inestimabile.
Quando la campana della torre suonò quattordici ore comparì in cima alla scala esterna il gran Capitano con tutti i suoi baroni, e l’allegrezza che sentiva di riveder la figlia (una staffetta giunta poco prima per annunziare il suo arrivo l’aveva lasciata a tre miglia da Barletta) avea voluto mostrarla nella gala del suo vestire e di quello del suo corteggio.
Sopra una vestetta di drappo d’oro riccio portava una cappa di velluto pavonazzo acceso, foderata di zibellino, ed in capo una berretta compagna. Da un bellissimo zaffiro che serviva di fermaglio spuntava un pennacchio lungo poco più d’un palmo, ma interamente composto di perle fine infilzate in fili d’acciajo, che ondeggiavano leggiere sulla fronte come fosse di piuma veramente. La spada ed il pugnale colle guaine parimenti di velluto pavonazzo scintillavano di gemme, e sul petto a sinistra aveva una spada ricamata in rosso, che era l’insegna dell’ordine di S. Yago.
Trovò a piè della scala una mula bianca catalana coperta sino a terra d’una gualdrappa di seta pavonazza cangiante trapunta d’oro; messosi in sella, il suo seguito montò a cavallo, e tutti insieme si mossero per andare incontro a D. Elvira.
Prospero e Fabrizio Colonna, vestiti di sciamito rosato, e pieni di ricami d’argento, cavalcavano, a’ suoi lati, due cavalli turchi, i più belli che si fossero visti da gran tempo in Italia. I due cugini, oramai oltre la virilità, stavano su quelle alte selle di velluto frenando gli slanci de’ loro cavalli in atto così bravo, che ben apparivano que’ gran soldati che erano, ed i migliori condottieri che contasse allora la milizia.
Nella turba che seguiva si notava all’aspetto accigliato e robusto Petro Navarro, inventore delle mine, usate con tanta fortuna all’espugnazione di Castel dell’Uovo. Diego Garcia di Paredes, l’Ercole di quel tempo, il quale non usando quasi mai coprirsi d’altro che di ferro, e neppur avendo in pronto abiti da comparire in tal giorno, aveva limitata la sua gala a far sì che le sue armi fossero meglio forbite del solito, ed a togliere il più feroce di parecchi cavalli da battaglia che aveva. Era un gran stallone calabrese preso al capestro da poche settimane, alto, membruto e nero come un corvo, senza pelo d’altro colore.
Il solo Paredes avrebbe osato e potuto cavalcare questa bestia selvaggia, che avvezza fra i boschi, trovandosi ora fra tanto popolo e tanto romore, s’era imbizzarrita, sbuffava e schiumava come un leone.
Ma la statura del cavaliere, la sua grave armatura e l’ajuto d’un freno lungo mezzo braccio che insanguinava la bocca al cavallo, glielo facevan soggetto, e dopo aver fatti nel muoversi cento strani salti (e nessuno era tardo a dargli luogo) prese il savio partito di non stimarsi più forte di Diego Garcia, che inchiodato fra gli arcioni rideva di quegl’inutili sforzi.
Il fiore della gioventù italiana veniva di conserva coi baroni spagnuoli. Ettore Fieramosca cavalcando fra i suoi due amici più cari, Inigo Lopes de Ayala e Brancaleone portava un mantello di raso azzurro ricamato in argento, lavoro e dono delle donne di S. Orsola. Aveva grido d’esser il primo dell’esercito nel maneggiare un cavallo. Quello che aveva sotto, color di perla coi crini scuri, donatogli dal sig. Prospero, era stato addestrato da lui con tanto studio, che pareva capisse senz’ajuto di briglia o di sproni tutti i voleri del suo signore.
Pareva che Fieramosca avesse il dono di far sempre la prima figura in ogni cosa e fra tutti ovunque si trovasse.
Perfetto nelle forme del corpo ne mostrava la gentile struttura con un vestire stretto alla carne, che in ispecie alle gambe ed alle coscie non gli faceva una piega, tutto di raso bianco; ed era tanta la sua bellezza, la grazia nell’atteggiarsi, che, passando la cavalcata per le strade, le turbe guardavano lui solo o di lui solo si maravigliavano. Il giovine s’avvedeva di questo trionfo, ma quasi fra sè arrossiva di cogliersi in un pensiero che appena si vuol perdonare all’altro sesso.
In ultimo venivano gli scudieri di questi capi; e, come voleva l’uso in allora, ogni signore procurava avere a’ suoi servigi uomini di diverse nazioni; e più erano barbari e strani, più s’apprezzavano: onde si vedevano Spahis turchi colle corazzine a squame, le storte ed i cangiarri: uomini del regno di Granata armati di zagaglie moresche, sagittari tartari, e questi erano due staffieri di Prospero Colonna vestiti di colori vivacissimi cogli archi ed i turcassi d’argento. V’erano Negri venuti dall’alto Egitto armati di lunghi dardi, e le barbare fisonomie di questa gente contrastando co’ visi europei, formavano un quadro pieno di vaghezza e di varietà.
La mossa di Consalvo fu salutata dallo sparo di tutte le artiglierie che guernivano le torri e gli spaldi del castello, e dalle campane sonando a distesa. Fra tanto frastuono spiccava di tempo in tempo lo squillo delle trombe ed il suono degli stromenti producendo un’armonia, se non perfettamente d’accordo, almeno tale da esprimere l’allegrezza marziale che animava l’esercito.
In questa giunse l’avviso al gran capitano che il duca di Nemours co’ suoi baroni era già entrato in Barletta, onde fermatosi mandò alcuni de’ suoi ad incontrarli, e pochi momenti dopo i Francesi comparvero al lato opposto della piazza.
Il duca vedendo Consalvo smontato, e che veniva ad incontrarlo, scavalcò, e dopo essersi ambedue stesa la mano con gentile accoglienza, il francese disse cortesemente che stimerebbe gran villania se, invitato ad una festa venisse a disturbarla, come sarebbe accaduto se per cagion sua si ritardasse d’un momento al padre di riabbracciar la figlia. Conoscendo che s’andava ad incontrarla, pregava gli fosse concesso venire con essoloro, non dubitando che se la guerra li rendeva nemici, non volesse il capitano spagnuolo tenerlo pel primo di quanti pregiavano in lui il valore, l’ingegno e l’altre sublimi sue doti. Non si poteva non esser cortese a tali parole. Risaliti i due capi a cavallo, s’avviarono i primi, ed il seguito tenne loro dietro alla rinfusa usandosi scambievolmente que’ modi cortesi de’ quali i Francesi in ogni età sono stati sempre i maestri.
A poco più d’un miglio fuor della porta il corteggio si fermò vedendo comparire da lontano la schiera che scortava la lettiga di D. Elvira.
Veniva in compagnia di Vittoria Colonna la figlia di Fabrizio, la quale divenne poi moglie del marchese di Pescara e si rese cotanto chiara per fortezza, per virtù e per ingegno. Scavalcato Consalvo corse ad abbracciare la figlia, che era scesa dalla lettiga, e se la tenne stretta chiamandola più volte1 Hija de mi alma e colmandola di carezze che contrastavano mirabilmente colla matura gravità d’un tanto uomo.
Ettore ed Inigo erano stati scelti da lui a servir di scudieri alla figlia, onde vennero avanti conducendo una chinea per farla salire in sella. Il giovane italiano piegò un ginocchio a terra, e la donzella, posando leggermente sull’altro la punta del piede, si pose a cavallo con tanta grazia che più non si poteva vedere. La fronte pallida di Fieramosca si tinse d’un leggier vermiglio, quando nel rizzarsi gli furono rese grazie da D. Elvira con un tal sorriso e con un volger d’occhi che mostravano quanto avesse cara la scelta di un così bel giovane a suo scudiere.
L’indole di costei (forse n’era cagione la soverchia tenerezza del padre) non avea per avventura la maturità di senno che si potrebbe pur trovare in una giovane di vent’anni. Il cuor caldo e la vivace fantasia non erano in lei sempre temperate da quel giudicar retto tanto difficile a trovarsi in ambo i sessi, e che pure, dopo la virtù, è il più prezioso gioiello dell’anima.
La sua amica Vittoria Colonna univa a questa dote l’acutezza ed il brio d’un prontissimo ingegno. Quantunque ambedue si dovessero dir belli egualmente, non si sarebber però potute trovar due bellezze d’un carattere più dissimile. Gli occhi sfavillanti di D. Elvira, il suo frequente sorriso, forse cagionato in parte da un intimo senso che l’avvertiva d’esser così più bella, piacevano sulle prime, ma le forme grandiose e veramente romane della figlia di Fabrizio, il suo bel volto simile a quello immaginato dagli scultori greci per figurare le Muse, un certo raggio divino che le balenava fra ciglio e ciglio s’insinuavano ben altrimenti nel cuore generandovi un affetto ed una maraviglia che si cancellavano difficilmente. Un occhio sagace avrebbe forse creduto scorgere in lei una tinta d’orgoglio. Se v’era; la sua virtù seppe di poi vincerlo e volgerlo al bene.
Note
- ↑ Figlia dell’anima mia.