Esempi di generosità proposti al popolo italiano/Disubbidienza pia
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Uscito dal paese di Get, si ricoverò Davide nella grotta d’Odolla. E fra i timori e le angustie della misera fuga, pensava al suo Gionata, pensava alla moglie; ma non dimenticava la vecchia madre e tutta la semplice sua dolce famiglia e il vecchio padre. Oh quante volte avrà Davide sospirato quel tempo che, pastorello povero e libero, senza necessità di nascondersi come un reo e senza tentazione di dire menzogna, i suoi desideri s’ erano contenuti in pochi oggetti, ma s’acquetavano in quelli; e intanto i pensieri volavano per l’ampia campagna, e riposavano sulla verdura, e di lì s’innalzavano a’ monti, e de’ monti al cielo, a Dio benedetto! Quante volte avrà rigustato col desiderio il latte tiepido soaveolezzante delle sue pecore, ch’e’ bevve seduto accanto a sua madre, il pane ch’e’ cosse sotto la brace a suo padre Isai; e que’ lunghi dolci discorsi della famiglia che non dicono nulla al cuor dell’estraneo, e quel lungo ridere di tutto il cuore per cose da nulla, e quelle storie de’ vecchi padri raccontate sul focolare la sera, mentre di fuori alla porta s’ammonta, sospinta dal vento, la neve; e i canti imparati, e la cetera pendente dall’affumicata parete! Come nebbia che, densa e grave all’odorato, toglie per poco agli occhi la campagna e il sentiero; così la lieta fortuna aveva per poco annebbiata nel pensiero di Davide l’immagine della sua povera famigliuola: ma venne il dolore a rasserenargli l’affetto. E allora il guerriero desiderò il bacio de’ genitori cadetti, e il colloquio de’ fratelli: tanto più vivamente desiderò, che temeva non cadesse sopra loro la fredda ira del re frodolento. E i genitori e i fratelli desideravano lui; e là dove egli era vennero a ritrovarlo.
Vennero altresì, alla spicciolata, di quelli che si collegavano sempre ai malcontenti, perchè ne speran o pane o fame o vendetta; uomini poveri, maltrattati da Saul. Se ne fece una turba di quattrocento e Davide era lor capitano. Di cotesto non so se abbiamo a lodarlo; ma forse e’ lo faceva a difesa propria, e per mettere alquanto in riguardo il re sciagurato: dacchè certi uomini solo all’aspetto della forza s’inchinano e apprendono dal timore il rimorso. Del resto non pare ch’egli conducesse que’ quattrocento a rapine o a stragi; anzi forse raffrenava i loro impeti, e li indirizzava ad imprese di valore puro. E vedremo che le sue intenzioni non erano di nemico.
Dalla grotta d’Odolla mosse Davide verso la terra de’ Moabiti; e disse al re di quel luogo: «Rimangano, prego, mio padre e mia madre nel paese vostro insinattanto ch’io sappia quel che Dio dispone di me». Quivi stette alcun tempo; ma Gad profeta gli consigliò di ritornarsene nel paese di Giuda. E egli andò, e si pose in una foresta che chiamavano col nome di Heret. Seppe re Saul del ritorno di Davide co’ suoi quattrocento compagni; lo seppe mentr’era in Ghibea, nella selva di Rama. E’ teneva in mano la lancia, e i suoi servitori gli stavano intorno (ho già detto quel che significa servitori del re). Disse dunque a’ servitori che gli stavano intorno: «Sentite un poco voi altri. Sperereste voi forse che il figliuolo d’Isai faccia ciascheduno di voi larghezza di campi e di vigne, e ch’egli abbia a creare tutti voi capitani dell’armi? Voi congiurate contro di me, congiurate tutti; e non è chi mi rechi novella di quel che fa il mio nemico. E bene sta, se il figliuolo mio stesso ha stretto amicizia col figlio d’Isai. Nessuno di voi conduole alle mie sventure; nessuno me ne reca novella, dacchè il mio figliuolo ha aizzato contro di me il servo mio, che mi tende insidie senza tregua».
Era con Saul nella foresta certo Doeg idumeo, soprantendente de’ pastori di Saul (chè, siccome aveva predetto Samuele, Saul aveva pastori di suo); il quale Doeg s’era abbattuto a vedere allorchè Davide fuggiasco venne in Nobe ad Achimelec sacerdote, e si finse mandato per segreto messaggio del re, e gli nascose de’ risentimenti insorti tra loro; onde Achimelec diede a lui, che aveva fame, del pan benedetto, a lui e a’ suoi, che altro non aveva da dare; e gli diede la spada di Golia filisteo, che, rinvolta e appesa, era stata dal dì della vittoria nel luogo santo dov’era anche l’Arca. Achimelec fece questa cosa innocentemente; ma già, quand’anco l’avesse saputo, dar mangiare a affamati, per scellerati che siano, e dare una spada a un innocente perseguitato, non s’avrebbe a chiamare misfatto. Dico che Doeg idumeo vi si era trovato. Or eccoti che qui nella foresta e’ si pensa di rapportare a re Saul questa cosa; ma senza dire che il sacerdote non sapeva nulla dell’ira del re e della fuga di Davide. Racconta dunque la spia maledetta, tacendo la particolarità che giustificava l’accusato, e dicendo il male solo, come fanno le spie: “Ho visto Achimelec, figliuolo d’Achilob... — così e così.” Allora il re, fattosi subitamente peggior d’una fiera, manda per il sacerdote e per tutta la famiglia di lui, e per tutti i sacerdoti ch’erano in Nobe, che gli siano subito tratti innanzi. Nè in questo frattempo, che il messo andò, e ch’essi vennero, il suo furore s’era quetato; perchè passione fredda era la sua, mista d’invidia e d’orgoglio feroce.
Vennero. Dice Saul ad Achimelec: “Figliuolo d’Achilob, dimmi.» Il sacerdote rispose: “Eccomi, Signore.» E Saul ripiglò: “Perchè cospirare contro me, tu costì e il figlio d’Isai? Perchè dargli i pani e la spada, e orare per lui, che insorgesse poi contro me da insidiatore perfido?” Achimelec con semplicità gli rispose: “Come mai! Chi tra tutti i servi vostri, signore, più fedeli di Davide? Egli genero del re; egli che al vostro cenno va e combatte, e fa di sè gloriosa la casa vostra? Ho io forse da ieri cominciato a pregare per esso? Non voglia, prego, il re sospettar male di me, ne d’alcuno di mia famiglia: chè nè io nè nessuno abbiam pure avuto in pensiero male veruno. Di coteste discordie, il servo vostro non ha saputo cosa nessuna, nè grave nè piccola, signor mio». L’ira, l’orgoglio, il sospetto sono malattie che tolgono all’uomo la virtù di credere al vero; e re Saul le aveva addosso infelice tutte e tre. Poi, quel sentirsi rammentare le imprese di Davide, gli fu al cuore un nuovo morso; onde disse: «Morrai tu e tutti i tuoi; morirete». E a’ soldati comandò: «Uccideteli tutti, perchè la man loro è nella mano di Davide. Sapevano ch’e’ fuggiva, e non lo dissero a me».
Punire con la medesima pena la colpa, anco che vera, e colui che non isvela la colpa, è giustizia di tiranno disperato e matto dalla paura. Al cenno del re, i servi suoi, nessuno si mosse. Non osavano stendere le mani sui sacerdoti del Signore; e chi guardava alle loro teste canute, chi a Saul, chiedendogli con gli occhi pietà; altri si guardavano tra loro, come per fare coll’altrui conoscenza coraggio alla propria; perchè il bene è quasi lume che, posto in mezzo a più specchi, li illumina tutti a un punto, e dall’uno all’altro specchio rimbalza, e moltiplica se medesimo lietamente. Era re Saul rimasto col braccio teso in atto di comando, come se, prima ancora ch’egli abbassasse la mano, avessero tutti que’ corpi a cadere morti. In vedere i suoi servi, di solito tanto pronti agli ordini di lui, tutti fermi, il suo braccio steso, e la faccia mutata da rabbia a stupore, avrebbero fatto sorridere chi lo guardasse senza pensare a que’ tanti innocenti, la cui vita da quel cenno pendeva quasi da filo. Ma il suo stupore dà luogo subitamente a più fiera rabbia. Rivolto a Doeg idumeo, grida il re: «Uccidili tu». E Doeg, già preparato dal mestiere della spia al mestiere del carnefice, s’avventò su que’ sacerdoti disarmati e potè trafiggerne ottantacinque.
Pietosa cosa a vedere, le bianche vesti, e i bianchi e biondi capelli, tinti di sangue; di sangue inzuppata l’erba e spruzzati gli alberi della foresta; e sangue schizzare sulla faccia infocata di Doeg; i più vecchi sacerdoti opporre il petto alla spada per difendere i petti più giovani, i più giovani con santa gara profferire sè stesso e chi cadere senza parola, chi con preghiera coraggiosa, chi con lamento sommesso; e quelli di sotto, ancora vivi, dibattersi nell’agonia, e scuotere i cadaveri de’ sopragettati compagni, e far sentire nell’agonia un suono languido modulato come di canto. I soldati che per pietà non ubbidirono alla voce del re, potevano impedire il macello, e con preghiere, e se bisognasse, con minacce, stornarlo; e avventandosi sull’Idumeo, troncargli il braccio scellerato. Ma forse attoniti alla crudel vista, forse avvezzi a servire stupidamente al volere del re, si smarrirono. Meno male che non si siano col braccio proprio fatti alla scelleratezza ministri; e preghiamo Dio che di questo coraggio almeno faccia tutti gli uomini degni. Incominciando a non servire l’altrui violenza, troveranno col tempo le forze e le vie d’inibirla.
Non sazia di tanto sangue l’ira di Saul, mandò l’Idumeo alla città di Nobe nella quale abitavano i sacerdoti, che trucidasse tutte quante le loro famiglie; e pur troppo si rinvennero sgherri che l’aiutarono a questo. Solo un giovanetto della casa d’Achimelec, di nome Abiatar, scampò, e corse a Davide annunziando dei sacerdoti del Signore le morti. Davide inorridito disse ad Abiatar: «Che, essendo in Niobe Doeg idumeo, l’avrebbe rapportato al re Saul, i’ lo dovevo sapere. Reo di tutto questo sangue son io». E sentendo rimorso e vergogna dell’aver mentito ad Achimelec, disse al giovanetto Abiatar: «Non temere; rimani meco. Se vorranno la tua, egli hanno prima a prendersi la mia vita. E s’io mi salvo, e tu sarai salvo». Sappiam grado a Davide che non rigettò dal suo seno quel giovanetto, come un rimprovero della imprudenza propria; che gli confessò schiettamente se essere colpevole del sangue de’ suoi che non temette con ciò l’odio o il dispregio dell’orfano desolato, ma credette poterlo consolare, e lo consolò veramente. Quanto pochi son quelli che patiscono, badino agli spasimi di chi patisce! Quanto son pochi che dicano all’addolorato: «Tu sei per causa mia addolorato»; e abbiano coraggio di chiedere scusa al debole che tace e piange! Quanto son pochi ch’abbiano fede nella generosità dell’anima umana, e sperino fermamente poter emendare il torto fatto, e essere perdonati! Il più degli uomini non si curano d’emendare il male che fanno, perchè lo stimano inemendabile; e, non sperando che l’offeso voglia mai perdonare ad essi, essi intanto lo guardano come nemico, e non gli perdonano mai, come se fossero essi gli offesi già da tutte le offese ch’e’ sospettano e sognano.