Esempi di generosità proposti al popolo italiano/Come provveggano alla dignità dell'uomo le feste

Come provveggano alla dignità dell’uomo le feste

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Il nome di Dio, e la verità Misericordia agli afflitti


[p. 74 modifica]«Ricordati di santificare la festa. Sei dì della settimana lavorerai; il settimo giorno è la festa del Signor Dio tuo. Perchè ne’ sei giorni Dio fece il cielo e la terra e il mare, e tutte le cose che sono in quelli; e al settimo l’opera fu compiuta»

A molti degni usi serve la festa, istituita da Dio per nostro riposo e ammaestramento e conforto. Un riposo, ogni tanto, dalle fatiche e dalle cure ci vuole; che il corpo non venga meno, e non s’accorci la vita, lo spirito non languisca, e nelle sollecitudini mondane e basse non perda della sua altezza e purezza. Che mai sarebbe la vita, sempre occupata a lavorare materialmente, a mettere insieme soldi? Oh che ricco dono, il pensiero della religione, il quale ci innalza sopra le opere e i pensieri servili, ci dona la libertà per un poco, e ci rende tutti uguali davanti all’altare di Dio, anzi più liberi e lieti i più buoni e i più pazienti, che sono assai volte i più poveretti! Che sarebbe del povero, segnatamente in certi paesi, condannato sempre alla fatica dall’avido e duro [p. 75 modifica]padrone; che sarebbe del povero se non fosse la festa, ch’è come una tregua assegnata da Dio a questa milizia che è la vita degli uomini sulla terra? E però dice Iddio: «Il settimo dì rimarrai dal lavoro; acciocchè il bue e l’asino tuo si riposino; e respirino il figliuolo dell’ancella tua e il forestiero». Anco alle bestie un riposo è richiesto; anco a quelle dobbiamo aver compassione; e per esercitare questo nobile sentimento della compassione, e anche per utile nostro. Anche coloro che dal lavorare hanno lucro, e par che ci godano, affaticando tutti i giorni dell’anno, lavorerebbero più stracchi, più svogliati, e men bene; guadagnerebbero meno, alla fine de’ conti. Quel ch’è continuo, uggisce e istupidisce. Siccome l’uomo, sebbene abbia necessità di mangiare, non mangia però sempre, anzi per più sanità destina a questo certe ore del dì; similmente e al lavoro e al riposo giova assegnare i suoi tempi: perchè, se fosse in arbitrio di ciascuno far festa quando a lui piace, ne seguirebbero due inconvenienti; che altri vorrebbe far festa troppo spesso, altri poi troppo rado; e che sarebbe tolta quella bellezza che viene nella società umana dall’ordine degli atti e dalla concordia degl’intendimenti. E quanto è bello che questa bellezza dell’ordine e della concordia sia fatta più splendida da un precetto di Dio; che sia santificato il riposo e purificata la gioia della memoria di fatti grandi e dal presentimento de’ beni celestiali! Che, quando le braccia si posano, le labbra cantino e ragionino parole di vita, e il consorzio degli spiriti si renda sempre più potentemente operoso!

La prima istituzione della festa fu per rammentare agli uomini che Dio ne’ primi sei giorni ha creato il cielo, la terra, e tutte le cose. Qui giorni vale età di tempo lungo, che noi non possiamo misurare; nelle quali età vennero per opera di Dio formandosi e i mondi delle [p. 76 modifica]stelle e dei pianeti, che sono tanto più grandi di questa terra che a noi pare sì grande; e venne formandosi questa terra stessa, e si consolidò e rasciugò e diventò tale che la specie umana potesse respirare e crescere in essa. Dunque Iddio, col volere che noi celebriamo questa mirabile solennità della creazione del mondo, innalza la nostra mente a tre grandi pensieri che sono tre serie d’innumerabili altri pensieri. Il primo pensiero si è: queste grandezze e bellezze che noi veggiamo nel mondo, son tutte effetto della parola di Dio, che ne ha fatte, e può farne, altre infinite, delle quali noi non possiamo comprendere pur la minima parte. E questo pensiero deve insieme eccitare l’amor nostro, umiliare l’orgoglio, e insegnarci che tutte le mondane magnificenze in cui gli uomini si compiacciono tanto, son cosa mirabile; peggio che se un pugno di fango volesse paragonarsi al fior della rosa. Il secondo grande pensiero che può rallegrarci la mente ne’ dì di festa, gli è appunto l’andare pensando delle cose create da Dio, quelle che a noi paiono più grandi e più belle; e domandandone a chi ne sa più di noi, godendo di quelle che possonsi godere, senza altrui danno nè nostro come la serenità d’un bel cielo, l’amenità d’una bella campagna, i fiori, le acque vive, le rarità de’ paesi lontani che ci vengono mostrate o narrate; anche le belle opere dell’arte dell’uomo, e le belle parole che ci hanno lasciati i nostri antichi scritti: perchè eziandio queste, essendo fattura di anime create da Dio, conducono al Creatore le anime nostre. Il terzo grande pensiero è: uscire con l’immaginazione e con l’affetto fuori de’ confini di questo piccolo pianeta; e pensare gl’innumerabili mondi creati da Dio, che intorno a questo pianeta girano, ed esso intorno a loro; pensare alle innumerabili creature, che vivono in quelli forse più perfette di noi. [p. 77 modifica]Di ciò nulla sappiamo ben certo; ma Dio si degnò rivelarci che più alto della nostra natura è la natura degli Angeli; de’ quali alcuni son nostri custodi; e tutti amano il medesimo Dio che ci fece. Pensiamo dunque a questi milioni di milioni di spiriti, che pensano a noi: pensiamo, se non altro, alle anime di tutti quegli uomini che nel viaggio di questa terra passarono innanzi a noi, e di tutti coloro che, creati da Dio, dopo noi passeranno. Nè queste cose pensare potremo senza diletto e maraviglia e umiltà salutare e riconoscenza amorosa e preghiera. Ma noi, Cristiani, oltre alla creazione del mondo, dobbiamo nella festa rammentare la redenzione eziandio, per la quale Gesù Cristo, soffrendo e morendo e risorgendo da morte, ci comunicò la sua Grazia che ci ha liberati.

Oltre al settimo giorno, una festa, tra altre, aveva Mosè istituita per comandamento di Dio: ch’era al tempo che le biade maturano, perchè, offrissero a Dio le primizie del raccolto; e un’altra alle fine dell’anno in azione di grazie. Ordinava Dio per Mosè, che, nel segare il grano, non lo tagliassero rasente terra; e che le spighe che rimanevano sul campo, e’ non si volgessero per raccattarle ma lasciassero ai poveri e a’ forestieri. «E similmente i grappoli della vigna che cascano e quelli che restano dalla vendemmia, e le ulive, lascerai, se li prendano il forestiero e la vedova ed il pupillo, acciocchè il Signore tuo ti benedica in ogni opera delle tue mani. Rammenti che anche tu fosti servo in terra straniera e poveretto». E a questo precetto in un luogo soggiunge: «Io sono il Signore Dio vostro». Come dire: Io sono il Dio vostro e de’ poveretti. Io sono quegli che fece la terra e tutte le sue ricchezze: chè son mie, non da uomo veruno. [p. 78 modifica]Io sono il Dio vostro; e quello che lascerete a’ fratelli necessitosi, a più doppi lo riavrete. Io sono il Dio vostro: e siccome io nel donare nascondo la mia maestà, e lascio venire agli uomini il dono come se lo trovassero per caso da sè, e così voi non fate sfoggio di quello che date; ingegnatevi di risparmiare al povero la vergogna del chiedere e del ricevere: fate che la vostra elemosina non paia elemosina ma tributo debito, consuetudine sacra.

Un’altra festa c’era, festa di penitenza; che invocavasi la misericordia di Dio: e a celebrarla era richiesto, più accettevole d’ogni sacrificio, il dolore. Perchè l’anima la qual riconosce innanzi a Dio i torti proprii, sarà nel cospetto degli uomini meno superba e meno abietta; ricupererà col pentimento la dignità propria, e meglio saprà conservarla.

Un’altra festa era la festa detta delle Tende, in memoria degli anni che Israello, uscito di servitù visse sotto le tende della disagiata ma libera solitudine E in memoria di quegli accampamenti, gli Ebrei in detta festa facevano frascati con rami di palme e di salci di lungo l’acqua corrente, verdeggianti di fronde vive, e sotto quelli abitavano per sette dì. Le memorie della schiavitù dileguata e delle acquistate franchigie, in più modi giovano e a ciascun uomo e a ciascuna famiglia, e a’ popoli interi: perchè rinfrescano il sentimento della propria dignità, perchè destano a gratitudine verso Dio liberatore e verso gli uomini che operano secondo la sua volontà; perchè rammentando il pericolo, ammoniscono a evitarlo; rammentando l’umiliazione, c’insegnano umiltà rammentando il dolore, c’insegnano aver compassione degli addolorati e soccorrerli fraternamente. [p. 79 modifica]

E però un’altra festa era ordinata da Dio in primavera, a commemorare l’uscita della Egizia schiavitù. Erano già piene di queste memorie tutte le feste. In quella stessa del raccolto, comanda Iddio per Mosè: «Seggano teco alla mensa medesima, quasi a rito religioso il tuo figliuolo e la tua figliuola. e il servo e l’ancella, e il forestiero, e il pupillo e la vedova che con voi vivono, e forse debbono nel paese vostro morire. E ti ricorderai che in Egitto fosti servo anche tu». Fosti servo: dice; e ragiona a’ discendenti lontanissimi di coloro che furono servi in Egitto, per immedesimare in virtù dell’affetto i presenti co’ posteri, e i nepoti con gli avi, e fare di tutti i secoli una sola famiglia.

Un’altra festa importa notare, degna, in verità, della sapienza e misericordia di quel Signore che nel suo popolo la istituì. Dice il Signore: «Sei anni seminerai la tua terra, e ne avrai il tuo raccoto: l’anno settimo farai riposare la terra; e di quel che si nasce, mangino teco i poveri del popol tuo, e il forestiero ch’è pellegrinante tra voi. Così farai della vigna, così degli ulivi. Il settim’anno sarà come la festa della terra, l’anno del riposo nel nome di Dio, comune Signore vostro. Anche, conterai sette settimane d’anni; cioè sette volte sette, che fa quarantanov’anni; e all’anno cinquanta, per tutti i luoghi del paese si darà nelle trombe, acciochè si preparino a santificare il giubbileo, ch’è l’anno del rimettere tutti i debiti e del ragguagliare gli averi. Ciascuno ritornerà a possedere quel che un tempo era suo, alla propria famiglia ritornerà chi l’avesse perduta; perchè gli è l’anno cinquantesimo, il giubbileo. Quell’anno, dico che tutti riavranno le proprie possessioni. E però, quando voi vendete al [p. 80 modifica]vostro fratello, o comprate da lui, non gli date danno e dolore nel prezzo, ma computate esso prezzo secondo che l’anno cinquanta è più o men vicino; perchè allora il fondo ritorna al padrone di prima. E però, se manca di molto all’anno del giubbileo, la cosa avrà prezzo maggiore; se poco, varrà meno. Non vogliate affliggere il prossimo vostro: ma tema ciascuno il Signore Dio suo; perch’io sono il Signore di tutti. Adempite i miei precetti; e abiterete la terra senza paura di prepotenza straniera. E se direte: Che mangeremo noi il settim’anno, l’anno che la terra riposa, se non seminiamo e non abbiamo raccolto? - Io vi darò benedizione di frutto nell’anno sesto, sì ch’abbia a bastare per più di due anni. E seminerete l’anno ottavo, e fino al nono mangerete delle derrate del sesto, insin che venga il raccolto novello. La terra non si potrà vendere mai, perch’è mia la terra, dice il Signore; e voi siete come passeggeri, e miei come coloni. Onde ciascuna parte della vostra passione non si venderà che a condizione di dover essere riscattata. Se il tuo fratello nel bisogno vende il suo poderetto; potrà, se trova denaro, ricuperarlo anche prima del giubbileo. Ma se il venditore non avesse da rendere il prezzo, il compratore si tenga il podere sino all’anno cinquanta; perchè quell’anno ogni podere venduto ritorna al padrone di prima. Solamente le case che sono in città murata, possonsi ricomperare nel termine d’un anno; ma, se non si ricompri entro l’anno, il compratore e i suoi discendenti la tengano in perpetuo, e neppur l’anno del giubbileo la si restituisca al possessore di prima. Che se la casa è in terra non murata, vendasi come podere; e nel giubbileo ritorni al primo padrone». [p. 81 modifica]

Provvedimenti di giustizia liberale. Ogni settim’anno il raccolto è de’ poveri, acciocchè l’uomo che possiede qualcosa non si attacchi con troppa tenacità al suo avere; acciocchè si usi a risparmiare il raccolto d’un’annata sì che faccia per due; e perchè sappia che il diritto a campare è comune agli uomini tutti, e che la terra è di Dio, padre a tutti. Per queste medesime ragioni e per altre parecchie, nella legge mosaica, era illecito vendere in perpetuo altri fondi che la casa dentro nella città: e questa sola chi non riscattasse entro un anno, perdeva per sempre, acciocchè nella città, dove i modi di vivere son più facili, e maggiori i pericoli della scioperatezza, fosse stimolata l’industria, e fosse punita la negligenza di coloro che corressero a vendere con la sicurezza di riavere da ultimo. Ma quanto alle case fuori di città ed a tutti quanti i poderi quell’anno del giubbileo rimetteva l’uguaglianza turbata; e così da un lato si riparava ai mali dell’opulenza corruttrice e oziosa per avere troppo, dall’altro ai mali della povertà tentatrice e oziosa per aver nulla. I primi Cristiani perfezionarono questi ordinamenti mettendo tutto in comune quello che avevano, e immobili e mobili, facendosi tutti poveri nello spirito, e ricchi in carità. E quando gli uomini conosceranno meglio le dolcezze della vera uguaglianza, non già di quella che consisterebbe nel poter tutti del pari comandare e godere (ch’è stoltezza impossibile), ma di quella che insegna a comunicare co’ fratelli i diritti e le consolazioni, a sottostare tutti a Dio per non soggiacere ai capricci degli uomini; quando, dico si conoscerà la vera uguaglianza, allora l’esempio datoci dalla legge mosaica e dalla prima Chiesa de’ Cristiani sarà gloriosamente imitato.