Ercole (Euripide)/Quinto episodio
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messaggero
O voi per gli anni candidi.....
corifeo
Tu gridi e mi chiami: perché?
messaggero
Che orrori entro la reggia!
corifeo
D’altro araldo bisogno non c’è.
messaggero
Son morti i figli!
corifeo
Ahimè!
messaggero
Piangete, ché tempo è di lagrime!
corifeo
Ahimè, scempio inumano!
Ahimè, d’un padre barbara mano!
messaggero
Motto non v’ha che queste pene agguagli.
corifeo
Come lo scempio paterno, lo scempio
piombò sui figli? Narrami.
Come questi travagli
sospinti dall’ire divine,
su la reggia piombarono?
Dei figli narra la misera fine.
messaggero
Di Giove innanzi all’ara eran le vittime
raccolte già, per espiar la casa,
dopo ch’Ercole ucciso ebbe e gittato
fuor dalla reggia il principe di Tebe.
E l’amabile schiera anche dei figli
v’era, e il padre, e Megara. E in giro già
si portava il canestro intorno all’ara,
e fauste grida innalzavamo. Ed ecco,
d Alcmèna il figlio, mentre già la face
nella destra recava, per immergerla
entro l’acqua lustral, muto ristette.
E del padre all’indugio, i figli alzarono
su lui lo sguardo. Ed ei non era piú
quel di poc’anzi; ma torceva gli occhi
già deliranti; e sanguinosi i globi
sporgean de le pupille, ed una bava
stillava giú, lungo il villoso mento.
E, con un riso folle, disse: «O padre,
perché, prima che ucciso abbia Euristèo,
il fuoco accendo espiatore, e addoppio
il travaglio cosí, quando m’è lecito
compierlo tutto in una volta? Quando
la testa d’Euristèo qui porterò,
anche per quelli che son morti adesso,
pure le mani renderò. Spandete
l’acqua, le mani lascino i canestri.
Chi mi dà l’arco? Chi mi dà la clava?
A Micene m’avvio: leve e bidenti
prendere è d’uopo, e con l’intorto ferro,
dei Ciclopi le mura, a cui compagine
diede la subbia e la purpurea fune,
sconquassar nuovamente». E, cosí detto,
mosse; e dicea d’avere un carro, quando
non l’aveva, e facea gesto d’ascenderlo,
vibrando, come pur l’avesse, il pungolo.
Stavano i servi fra riso e terrore,
guardandosi l’un l’altro; ed uno disse:
«Con noi scherza il Signore? oppure è folle?»
Quello scorrazza su e giú, per tutta
la casa; e, giunto nella sala, dice
che la città di Niso1 è quella; ch’entra
in una casa; e si distende a terra
come si trova, e si dispone al pranzo.
Fu breve indugio. E poi, nel pian selvoso
dell’Istmo disse ch’era giunto, e qui,
sciolte le fibbie del mantello, ignudo,
una gara impegnò senza rivali.
Quindi silenzio impose, e proclamò,
di sé stesso precóne, il suo trionfo
contro nessuno. E orribili minacce
contro Euristèo ruggendo, eccolo giunto —
diceva egli — a Micene. E allora, il padre
toccò la sua mano possente, e disse:
«Figlio, che fai? Che turbamento è questo?
Dei tuoi nemici la recente strage
ti fa deliro?» Ed ei crede che il padre
sia d’Euristèo, che, per timore supplice,
s’afferri alla sua man, via lo respinge,
e l’arco appresta e la faretra contro
i figli suoi, pensando di trafiggere
i figli d’Euristèo. Per lo spavento
tremando, quelli qua e là si sbandano,
al peplo un d’essi della madre, l’altro
d’un pilastro al riparo; e a pie’ dell’ara,
al par d’uccello, s’accovaccia il terzo.
E la madre gridò: «Padre, che fai?
Uccidi i figli?» E grida il vecchio, e gridano
tutti i famigli. Attorno alla colonna
quello persegue il figlio; e ad un’infausta
svolta del piede, se lo trova innanzi
a faccia a faccia, e lo colpisce al fegato.
Cade quegli supino, e l’alma spira,
e spruzza il sangue sul marmoreo zoccolo.
Ed ei tal vanto, con un grido innalza:
«E uno! Spento è per mia mano questo
figliuolo d’Euristèo: pagò la pena
della paterna nimistà». Su l’altro
tese poi l’arco, che dell’ara ai piedi
accovacciato s’era, e che sperava
qui rimaner nascosto. Ed il tapino
prevenne il colpo, e ai ginocchi del padre
corse, e le mani al mento e al collo tese.
«O padre mio — gli dice — o dilettissimo,
non uccidermi, io tuo sono, tuo figlio!»
L’altro, gli occhi selvaggi, occhi di Gòrgone,
stravolge; e poi che presso troppo è il figlio
alla freccia funesta, a mo’ di fabbro
che forgia il ferro, alta sul capo vibra
la clava, e il figlio sulla testa bionda
colpisce, e il cranio gli fracassa. E, spento
il secondo cosí, muove ad aggiungere
a queste prime due la terza vittima.
Ma lo previene la misera madre,
che il pargolo sottrae dentro la casa,
e serra l’uscio. Alle ciclopie mura
quei credendosi allor, vibra la zappa,
scalza le imposte, fa saltar gli stipiti,
e sposa e figlio a un colpo sol prosterna.
Di qui, si lancia a sterminare il vecchio;
ma comparve un’imago — in essa, Pàllade
riconobbero tutti, all’elmo, all’asta
ch’essa crollava — e contro il petto d’Èrcole
una pietra scagliò, che fine pose
al delirio di strage, e l’assopí.
A terra esso piombò, col dorso urtò
una colonna, che spezzata in due,
quando il tetto crollò, s’era, e sul plinto
giacea rovescia. Dalla fuga il piede
noi trattenemmo allora; e, insiem col vecchio,
con forti guigge lo legammo stretto
alla colonna, ad impedir che quando
cessasse il sonno, egli aggiungesse nuovi
scempii agli antichi. E un infelice sonno
dorme il tapin: ché figli e sposa uccise.
Fra i mortali niun so di lui piú misero.