Emma Walder/Parte seconda/VI
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VI.
Nelle grandi crisi, la solitudine era il suo unico sollievo.
Davanti all’ Emma si era fatto una terribile violenza, per non affliggerla di più e per non rivelarle la vera natura del suo amore per lei. Ora aveva bisogno di sfogarsi, di piangere. E, se il furore lo invadeva, di abbandonarsi al furore, spezzando mobili, strappandosi i capelli....
Più di una volta nella sua vita, aveva ceduto, pazzo di dolore, agli impeti forsennati della sua indole passionale e compressa, per
ricomparire poi tra la gente, più calmo e più freddo, col suo sorriso indecifrabile e il linguaggio corretto di un perfetto gentiluomo. Più di una volta, mentre la fiera angoscia lo divorava, qualcuno dei suoi più intimi, lo aveva giudicato un asceta, troppo assorto in pensieri elevati e scevro di ogni passione; oppure un sereno epicureo deciso a godersela in barba al destino.
Ma forse mai come quel giorno la passione e il dolore l’avevano lacerato e reso folle.
Aveva la febbre, e i suoi occhi brucenti non ci vedevano nel corridoio un po’ buio.
Andando quasi a tastoni, invece di aprir la porta dello studio, entrò, senza accorgersene, nella camera matrimoniale.
Sbalordito, avendo scòrto solo un’ombra indistinta nell’alcova, egli stava per tornare indietro allorchè un grido lo fece sostare, e, per così dire, lo svegliò.
Vide. E rimase immobile, gli occhi sbarrati.
Andrea e Cleofe balzarono dal letto, semisvestiti.
Allora, per una reazione improvvisa della sua indole, Leopoldo riacquistò tutto il suo sangue freddo, e andò diritto verso di loro, così calmo e terribile che li spaventò come se avesse spianato la canna di una rivoltella contro ai loro petti.
— Sono disarmato — disse, con tale accento e con tale sguardo che Andrea avrebbe preferito la morte. — Il caso mi ha condotto, non il sospetto; e la paura vi ha traditi.
— Perdono!.... Perdono! — gemeva Cleofe inginocchiata ai suoi piedi.
— Taci! — gridò egli respingendola. — Taci e va lontano. Da te mi sono sempre aspettato tutto il male. Ma non credevo che tu osassi rapirmi il mio amico. Ti supponevo più astuta.
— Ora a te — riprese, rivolgendosi a Celanzi. — Tu non sei certo il suo seduttore, come non puoi supporre di essere il suo primo amante. Non sei che il primo nel quale m’inciampo, e devi rispondermi dell’offesa.
— Sono ai tuoi ordini — rispose Andrea profondamente addolorato, ma calmo. — Se vuoi la mia vita, puoi prenderla. Io non la difenderò.
E si sentiva che parlava sinceramente, che odiava la vita da quell’istante.
Un freddo sorriso passò sulle labbra di Leopoldo.
— Come l’ama! — pensò.
Poi disse:
— Va bene. Mi rivedrai domani.
Uscì da quella camera e poi dalla casa.
Ora aveva bisogno di ritornare all’aria aperta in campagna.
Era meno affranto di prima, ma più concitato.
Quella scossa violenta aveva ridestate alcune forze sopite dell’anima sua. Quell’essersi potuto sfogare dopo tanti anni di rancore soffocato in omaggio a un simulacro di famiglia, a un simulacro di concordia, lo rimetteva in un certo equilibrio, traendolo almeno da una posizione falsa, mettendolo di fronte alla verità.
La catena era spezzata. Strappata la maschera.
Quella donna non avrebbe più osato alzare la testa dinanzi a lui, posare a vittima, fingersi amorosa e sottomessa.
— Creatura ipocrita!
Per fortuna non l’amava più da un pezzo.
Ma Andrea? Oh! Il vero dolore di Leopoldo era il tradimento dell’amico.
— Così buono, così nobile, così intelligente... Eppure!...
Camminava all’impazzata, la testa bassa, il cappello all’indietro, le braccia penzoloni.
A poco a poco il parossismo passò.
Potè riflettere, giudicare con la sua grande equanimità.
Andrea amava quella donna di un amore cieco, indomabile: il rimorso del tradimento lacerava la sua coscienza. Leopoldo era sicuro di questo.
Poteva egli condannare severamente un uomo acciecato dall’amore?
No. Si sentiva molto più disposto a compiangerlo.
Pure, l’onore esigeva una riparazione. La macchia era di quelle che solo il sangue può lavare.
Alzò le spalle e rise beffardamente.
Burloni!
— Quando avrò ucciso un uomo, per una donna che non amo più, che disprezzo, cesserò forse di essere un marito tradito perchè sarò un assassino?
Nel suo caso poi, egli trovava che la vera colpevole era la donna: la vipera.
Forse non sarebbe stato male freddarla sul colpo e riconquistare la propria libertà, dacchè la società non gli concedeva di liberarsi altrimenti.
Sì. Ma che ne avrebbe poi fatto di quella libertà macchiata di sangue?
A quale donna amata avrebbe egli offerto il suo nome di uxoricida?
Ringraziava la sorte di averlo fatto entrare in quella camera soltanto per caso, senza sospetti e senz’armi.
Ouindi il suo pensiero ritornava a Celanzi. Analizzava l’amore di lui per Cleofe, ne cercava l’origine nell’infanzia del giovine, in quel grande affetto del bambino per la giovinetta. Immaginava l’impressione che egli aveva dovuto ricevere, rivedendola dopo tanti anni, sempre bella, fresca e più che mai seducente. Sentiva il fascino dei teneri ricordi, della confidenza e della civetteria di quella donna. Intendeva tutto, e quasi perdonava.
Come un lampo, l’immagine di Emma attraversò il suo spirito.
Emma, bella, pura, olezzante di giovinezza come un fiore appena sbocciato.
Poi Emma pallida, affranta disperata, risoluta a morire.
Chi l’aveva ridotta così?
Chi?
Senza dubbio un uomo amato, che non l’amava.
Chi era quell’uomo?
Chi altri se non Celanzi, giovine, bello, d’animo alto, degno di lei in tutto, e in apparenza libero?
Una volta fermato su questo pensiero, Leopoldo non l’abbandonò più.
Raccolse tutti i dati, tutti i sintomi che la memoria compiacente gli presentava.
E dopo una lunga, profonda analisi di ogni più piccolo particolare, dopo di aver rievocate e studiate tutte le parole di Emma, la sua convinzione fu fatta:
Emma amava Celanzi e aveva scoperta la relazione del giovine con la cugina.
Povera Emma! Povera bimba adorata!
Adesso intendeva la tenacità con cui ella aveva custodito il suo doloroso segreto. Naturale! non voleva farsi accusatrice; voleva morire.
Povero angelo!
Anch’essa vittima di quella donna. Anch’essa, infelice per un capriccio di quella donna.
Questo lo esasperava di nuovo contro Cleofe. Poteva disprezzare la moglie infedele, dimenticare e lasciare impunita l’atroce offesa personale; ma le lagrime di Emma gli straziavano le viscere: nessuna punizione gli sarebbe parsa eccessiva per chi era causa di quelle lagrime.
Egli si diceva: — Avendo sott’occhi una creatura perfetta, giovane e amante, come Emma, Andrea non avrebbe mai preferito Cleofe, se Cleofe non l’avesse attirato e sedotto con le sue arti di civetta. — Ella meritava dunque una terribile punizione; non per il male che aveva fatto a lui (si sentiva così staccato dalla terra e straniero a se stesso che quasi non se ne occupava) ma per avere distrutta la felicità di due giovani, assolutamente meritevoli di essere felici.
Con questi pensieri, che lo trascinavano in una nuova illusione, egli andava vagando come un anima in pena, preso da un nuovo furore di vendetta.
Ma non gli riusciva di trovare la vera punizione da infliggere alla perfida.
Quando gli pareva di aver trovato, doveva convenire che era una cosa inutile. Il male di Cleofe non avrebbe fatto il bene di Emma.
Questo bene, e non altro, premeva a lui.
A notte rientrò.
Il suo viso pallido appariva stanchissimo, ma calmo e quasi sereno.
Credeva di aver trovata la soluzione del penoso problema. Celanzi doveva sposare Emma; ed Emma doveva credersi amata da lui.
— Col tempo poi l’amerà davvero — diceva con profondo convincimento.
Appena in casa, Annetta gli andò incontro annunziandogli che la mamma aveva l’emicrania e che il desinare aspettava da un’ora.
Egli si scusò gentilmente dell’involontario ritardo, e s’informò con la massima naturalezza dello stato di sua moglie.
Poi domandò se Paolo era dei loro quel giorno e se avevano visto Celanzi.
— Non è il giorno di Paolo oggi — rispose Annetta sorridendo. — Sai bene che è invitato soltanto il giovedì e la domenica. Sarà domani. Quanto a Celanzi, io non l’ho visto.
Allora Leopoldo pregò Marco Fabbi, che stava per andarsene, di rimanere.
— O babbo — osservò Annetta — un pranzo riscaldato! Zio non sarà contento: dice sempre che le minestre riscaldate non gli piacciono.
— Birichina.... tu sai bene di che minestre parlo.
Continuarono a scherzare e andarono a tavola come tutti i giorni.
— Dov’è Emma? — domandò il padron di casa non vedendola nella sala.
— Eccomi — rispose la fanciulla entrando, e volgendogli uno sguardo che voleva dire: Vedi? Sono calma e forte, come te.
Egli la comprese e la ringraziò con un sorriso.
La serata passò tranquillissima.
Emma, che non sapeva della catastrofe, fu stupita di non vedere Celanzi, ma non disse nulla.
Per compiacenza ella sedette al tavolino da giuoco con zio Marco, mentre i due fidanzati si accomodavano al solito posto, e Leopoldo passava nella sala del piano.
Pure giuocando, Marco discorreva sempre, e la fanciulla, che si distraeva ogni momento, rispondeva spesso a rovescio. Quando egli diceva delle barzellette, cercando di tirare nella conversazione anche Annetta e Paolo, il tormento di Emma diveniva quasi insopportabile, ma il suo viso rimaneva indifferente.
Le fantasie piene di sentimento, che Leopoldo improvvisava le davano la forza di dominarsi. Così la vita esteriore tirava innanzi liscia liscia, mentre nell’intima fremevano tante burrasche.
Verso le undici, Annetta salì da sua madre, e ritornò subito dicendo che dormiva, che il medico le aveva fatto prendere un calmante e aveva dato ordine alla cameriera di lasciarla tranquilla.
— Perchè non s’è fatto vedere il signor dottore? — domandò Marco Fabbi.
— Ha detto alla cameriera che non aveva tempo.
Verso mezzanotte, la casa, completamente silenziosa, pareva immersa nel sonno.
Ma non tutti dormivano.
Come ogni sera, Emma restava alzata finchè non si sentiva vinta dalla stanchezza. Aveva posata la lucerna sul tavolino, e teneva un libro aperto davanti a sè, ma non leggeva: rivangava il passato, svolgendo in tutti i modi possibili l’inesauribile tema della sua miseria.
Quella sera però ella non si chiedeva: Perchè lo amo? Perchè?.... Le pareva di non amarlo più. Le pareva di odiarlo con la medesima intensità che aveva posto nell’amor suo. Senonchè, l’odio che nasce dall’amore è più grave e opprimente e difficile a nascondere dell’amore stesso.
Si sentiva affranta dallo sforzo sostenuto per mantenersi tranquilla tutte quelle ore, mentre ad ogni parola che l’uomo odiato pronunciava, ad ogni atto, ad ogni gesto, ella aveva provato l’irruente bisogno di insultarlo.
Poco dopo mezzanotte, Leopoldo, che si era ritirato nel suo studiolo dove spesso restava anche a dormire, sentì qualcuno sospingere l’uscio.
Riaccese il lume e vide sua moglie inginocchiata al piede del letto.
Il primo movimento fu di collera. Che cosa voleva? Quale insulsa commedia veniva a recitargli? In quale sottile e ben tessuto inganno voleva avvolgerlo ancora?...
Abbietta! Non aveva neppure la dignità della colpa!
Aveva sentite le parole di Andrea, sapeva che se si battevano — e questa doveva sembrare a lei l’uscita più probabile — egli si sarebbe lasciato uccidere.
Forse ella veniva appunto per ciò! Per supplicare il marito di salvarle l’amante! Ne era capace. Ah! vivaddio! se diceva una sola parola per intercedere la vita dell’amante, voleva sfracellarla.
— Ebbene? — domandò egli, fissandola sdegnoso in volto, e aspettando con impazienza ch’ella si decidesse a parlare.
Ma Cleofe era talmente affranta e disfatta dalla commozione, che non poteva muoversi, nè parlare. Lo aveva sentito salire, entrare in quella camera, passeggiare lungamente in su e in giù, indovinando che si abbandonava alla violenta agitazione tenuta in freno per alcune ore, e non aveva osato affrontarlo subito.
Poco vestita, nel suo accappatoio di flanella, era rimasta più di mezz’ora nel corridoio, tremando di freddo, battendo i denti per la febbre a cui era in preda. Soltanto quando s’accorse che era andato a letto e aveva spento il lume, sperandolo meno irritato e più disposto alla pietà, si era finalmente decisa a entrare.
Quello sforzo l’aveva esaurita. Le pareva che i suoi ginocchi fossero incollati al pavimento; la sua lingua era paralizzata.
Infastidito e stanco Leopoldo allungò un braccio fuori dalle coperte, e afferrandola a una spalla, la scosse tutta, gridando con voce sorda:
— Ebbene?... Che vuoi?... Smetti una volta di far la commedia! Io non credo alle tue lagrime. Hai qualche cosa a dirmi? Una rivelazione importante che ti giustifichi? Vuoi accusare me?... La mia freddezza di carattere?... o per meglio dire, il mio limitato ardore matrimoniale?... Parla!... Sfogati... È il tuo diritto. Convengo di non essere stato l’uomo che ci voleva per te. Me ne sono accorto presto. Le mie raffinatezze sentimentali ti annoiavano. Per te ci voleva un buontempone, con la forza di un colosso, capace di tenerti allegra e di atterrarti all’occasione con un pugno. Ti avrebbe dominata completamente, e tu l’avresti adorato. Neppure Andrea è il tuo uomo e tu non lo ami altrochè per capriccio. Oh! non ribellarti, ti conosco!... Ti ho penetrata fin dai primi anni, quando ti adoravo e volevo essere amato da te con tutta l’anima... che tu non avevi!... Se le nostre leggi ammettessero il divorzio ti avrei lasciata subito.... perchè tu potessi ricominciare la vita a modo tuo. Non essendovi il divorzio, ho pensato che era inutile, peggio che inutile; crudele. La condizione di una donna separata dal marito, nella nostra società, mi è parsa troppo dura per te — ti amavo ancora! Mi sono chiuso in me stesso, orgoglioso e infelice, e ti ho lasciata vivere un po’ a modo tuo. Speravo nella tua gratitudine. Ho avuto torto. Tu non hai capito. Non potevi capire. Al posto della gratitudine hai messo il rancore. Il tuo temperamento ha fatto il Resto.
Tacque.
Aveva parlato con accento di profonda amarezza, ma quasi senza collera.
Cleole, impressionata da quella energica e sincera rivelazione, lo ascoltava ancora, guardandolo con meraviglia.
Le pareva un altro.
— Dunque?... Tu continui a tacere? Sei stupita? Lo so, lo so. Non potevi indovinare quello che non dicevo. Mi hai preso per un «originale», come si dice volgarmente, per un eccentrico mezzo pazzo. E certo ti sei creduta sacrificata, mentre io ho spasimato al tuo fianco per tanti anni, la bocca suggellata dalla mia invincibile ritrosia e dalla non meno invincibile ripugnanza per tutte le scene drammatiche... come questa, che tu hai provocata e che è la prima e sarà l’ultima... Adesso puoi andare. Io ti ho giustificata come tu non avresti saputo. Mi accade sempre così: quando penso, giustifico tutti. Per questo sono sempre stato un inetto e un vigliacco nella vita. Va!... Lasciami... Non ti ammazzo, non aver paura. Ci separeremo tranquillamente... Ancora non vai?... Ah!.. vuoi sapere cosa farò di Andrea?... Lo ameresti, per caso? Mi sarei ingannato?...
Ella mormorò finalmente:
— Non si tratta di Andrea... nè della mia vita. So che sei incapace di uccidere...
— Già! Troppo vigliacco...
— Oh! non per questo...
— Basta! Basta!... Non voglio elogi da te. Perchè sei venuta dunque?... Alzati. Mettiti a sedere, là, su quella sedia. Non sono un confessore...
— Lasciami qui!... — supplicò Cleofe. — Lasciami ai tuoi piedi. Tu mi hai parlato sinceramente, in modo degno di te. Mi hai detto delle cose che non ho mai immaginate. Non so pensare come te, io! Pure ho sofferto tanto, e ti ho amato... come potevo!... Mi davi tanta soggezione, eri così serio, così superiore...
— Non altro? — domandò bruscamente Leopoldo.
— Oh! Abbi pietà! Non intendo scolparmi, non cerco scuse. Riconosco i miei torti, so che sono una indegna... che merito il tuo disprezzo... il tuo odio. Accetto qualunque castigo... Ma che Annetta non sappia!...
S’arrestò, soffocata dai singhiozzi.
Nella stanza piena d’ombra, la sua figura spiccava tutta bianca sul fondo scuro del tappeto e del letto; il suo viso disfatto, livido, aveva un’espressione di profonda angoscia: l’intima tragedia si appalesava con tutti i segni esteriori.
— Credimi!... abbi pietà! — ripeteva, a scatti, con la voce inrochita. — Dico la verità: non invento: non so inventare. Non ti ho capito: ho creduto che tu non mi amassi più. Sentivo in te qualche cosa che mi sfuggiva, per cui restavi sempre mio superiore, e non potevo immaginare... Abbi pietà, per la nostra Annetta... per la nostra figliuola!... Che non sappia... che non mi disprezzi... Oh! la mia bambina, la mia vita!...
Leopoldo taceva, osservandola, assediato dal sospetto che ella fingesse, che facesse la commedia, come tante volte; e, nel medesimo tempo, colpito, soggiogato da quel grande accento di verità e di dolore, dalla desolazione irrefragabile che si manifestava nel viso della disgraziata, nella sua voce, nei tremiti di tutto il corpo.
— Basta — disse — ti credo. So forse meglio di te, che tu non hai amato al mondo altro che la tua figliola. Ai miei occhi però, questo non ti fa un grande onore; e non cambia nulla. Tu hai amato Annetta con passione esclusiva, con gelosia, fino al delirio, fino all’ingiustizia. Vedi? So tutto. Ma che importa? Che valore posso attribuire a questa passione, se non ha avuto la forza di difenderti da altre passioni meno nobili e meno profonde?... Ora tu mi vuoi dire che non t’importa di nulla altro che di tua figlia e che sopporteresti qualunque castigo pur di conservarti il suo amore. Ti credo, tanto più che in questo momento è l’unico amore su cui ti sembra di poter contare. Ma le tue parole non possono farmi l’impressione che forse speravi. Ti conosco troppo. Il presente mi rischiara il passato.
“Potrei senza timore d’ingannarmi, dire il posto che ha occupato Celanzi nella serie de’ tuoi capricci. Non fremere: è inutile. Faccio soltanto per dimostrarti che il tuo amore materno non può difenderti adesso, come non ti ha impedito di discendere di debolezza in debolezza, di vergogna in vergogna.
Affranta, annichilita, Cleofe era caduta bocconi, la faccia sul tappeto.
I singhiozzi la scuotevano tutta. Non poteva parlare.
Qualunque fosse il passato di questa donna, il suo dolore era sincero, quasi selvaggio, e si rivelava negli schianti che le rompevano il petto, nell’abbandono delle forze, nella prostrazione, nell’avvilimento del suo orgoglio di donna.
— Hai ragione — balbettò quando potè rialzarsi.
— Quante volte ho inorridito di me stessa!... Non sono però tanto abbietta... no! Non sempre fui debole. Potrei vantare anech’io qualche vittoria. So che non serve. So che una donna onesta deve vincere sempre, che una sola disfatta la perde. Per questo sono qui, ai tuoi piedi, per questo imploro la tua pietà. Leo! ti scongiuro, non disonorarmi agli occhi di Annetta! Ammazzami, comandami di morire... ma che Annetta non sappia!
Ella attendeva, umile e desolata, protendendo le mani verso di lui; sformata in volto, gli occhi gonfi, morti; improvvisamente invecchiata e incurante di mostrarsi quale era.
— Tu mi domandi l’impossibile — disse Leopoldo.
— L’impossibile?!...Tu vuoi che mia figlia sappia?... Che mi disprezzi?... che disprezzi sua madre?
Si alzò, di sbalzo, terribile.
E curvandosi sopra di lui, ansimante, il viso infiammato, stringendo i pugni,
— Tu non puoi voler questo! — esclamò. Non sai che nostra figlia è ardente, appassionata, capricciosa?... Vuoi tu che quando arriverà anche per lei l’ora fatale, quando sarà assalita a sua volta, vuoi tu che a tutti gli altri incentivi si aggiunga questo, che essa possa dirsi: mia madre l’ha fatto, lo farò anch’io?... No, tu non puoi volerlo!...
Dopo un breve silenzio Leopoldo rispose, crollando il capo:
— Troppo tardi ci pensi. Annetta deve sapere più di quanto tu credi. Ormai, l’esempio delle tue sofferenze e delle tue umiliazioni, sarebbe il migliore ammonimento per lei; ammesso che simili ammonimenti servano a qualche cosa. Comunque sia, non vorrai pretendere che io continui a vivere con te! Abborro le spiegazioni drammatiche, ma una volta che mi sono imposte dai fatti, voglio che siano decisive, appunto per non ripeterle.
Cleofe non trovò subito una replica a queste parole. Era schiacciata: intuiva l’inevitabile. Annetta saprebbe: tutti saprebbero. Lo scandalo manderebbe in fumo il matrimonio...
— O povera Annetta!... povera figlia mia!
Il pensiero della figlia le ispirò un ultimo tentativo.
— Sii indulgente, Leo, lasciami dire ancora una parola.
— Parla.
— È per l’onore che tu mi vuoi scacciare? Non pensi che lo scandalo...
— Lo so. Non è soltanto per l’onore, è anche...
— Perchè ti sono odiosa!.. — Capisco. Ma non potresti aspettare che Annetta si mariti?
— E poi?
— Faremo di tutto per ottenere un trasferimento a Paolo, e io andrò con loro... e nessuno saprà...
— E tu trionferai. E Andrea? — domandò il marito ironicamente — Per non fare scandali bisognerà che continui le sue visite; va bene?
— Si potrebbe tutto accomodare, se tu acconsentissi a fargli sposare Emma...
Stupefatto di questa uscita Leopoldo domandò:
— Emma?... Perchè?
— È un vecchio pensiero che mi ritorna. Da principio, quando Paolo non amava Annetta, mi sono accorta che egli guardava molto Emma. Allora per proteggere la felicità di mia figlia, pensai al mezzo di allontanare Emma, e quindi a un matrimonio. Ne parlai a Celanzi subito, perchè mi pareva che Emma non lo avrebbe rifiutato, come gli altri...
— E invece rifiutò?...
— No. Fu Andrea che non volle, allora; ma adesso... se tu volessi...
Leopoldo rabbrividì. Una nuova lotta scoppiava nell’anima sua. Da una parte, questo matrimonio, che egli stesso aveva immaginato poche ore prima per la felicità di Emma, gli faceva orrore adesso che la stessa Cleofe lo proponeva così crudamente. D’altra parte questo particolare metteva in tale evidenza l’affetto sviscerato di quella donna per la figlia sua, che non si poteva più dubitarne. Rimaneva sempre vero, nella mente del pensatore, che quell’affetto era pur esso di natura poco elevata; ma l’intensità supplisce qualche volta all’elevatezza. Almeno, in quel momento, Leopoldo pensò così, o non pensò affatto, cedendo semplicemente all’improvvisa pietà che gli sollevò il petto.
Voltò la faccia per nasconderne la nuova espressione.
Interpretando quell’atto in senso contrario, Cleofe si sentì mancare.
– Non adirarti – balbettò – abbi pietà!
E rimase come impietrita, afferrandosi al letto per non cadere.
Egli era vinto.
Le terribili agitazioni per le quali era passato nel volgere di poche ore; lo sforzo fatto per dominarsi, e quella scena notturna, quel ritorno sul passato, quelle lagrime disperate, quelle umili preghiere della donna già tanto amata, lo avevano demolito. Non poteva più resistere.
– Sia come tu vuoi – mormorò. – Io non ti posso spingere all’ultima disperazione, per quanto male tu m’abbia fatto. Resta inteso che partirai con tua figlia quando Paolo sarà trasferito. A Celanzi penso io. Va in pace.
Ella soffocò un grido di gioia.
– Grazie, Leo, grazie. Che Dio ti benedica!
Si chinò, depose un lieve bacio sulla mano che le accennava di uscire, e sparì, leggiera come un’ombra.