Edipo Coloneo (Sofocle - Giusti)/Atto terzo/Scena IV

Atto terzo, scena IV

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Sofocle - Edipo Coloneo (406 a.C.)
Traduzione dal greco di Giovanni Battista Giusti (1819)
Atto terzo, scena IV
Atto terzo - Scena III Atto quarto - Scena I
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SCENA IV.


TESEO e detti.


teseo.
Quale
Rumor! che fu? Per qual nuovo spavento
Me distogliete inteso ai sacrificj
Del Dio marino, che a Colono impera?
Tutto sapere io vò: perocchè ratto
Più dell'usato a voi ne venni.
edipo.
O caro,
Tre volte caro Teseo, alla voce

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Ti riconosco. Atroci cose or ora
Soffersi da costui.
teseo.
E chi t’offese?
Dillo pure.
edipo.
Creonte, che quìFonte/commento: Pagina:Edipo Coloneo.djvu/163 vedi,
Rapirmi osò le figlie, che eran sole
Le guidatrici mie.
teseo.
Or che mi narri?
edipo.
Il vero.
teseo.
Tosto alcun corra agli altari.
Il popol lasci il sacrificio e il tempio:
E pedestre, o su celeri destrieri
Là dove le due vie mettono capo.
Voli, e il passo precida alle rapite
Donzelle. — Ben sarei schernito a dritto

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Da quest’ospite mio, se da Creonte
Sopraffar mi lasciassi. — Ite veloci
Il mio comando ad eseguir. Se all’ira,
Di che degno è costui, sciogliessi il freno,Fonte/commento: Pagina:Edipo Coloneo.djvu/163
Non escirebbe di mie mani certo
Senza castigo; ma, poi che quì venne
Dalle leggi protetto, a queste sole
Si abbandoni. — Di quì non partirai,
Se le fanciulle non mi rendi. Indegno
Di me, del sangue tuo, della tua patria
È il tuo perfido oprar. Come? tu vieni
Dove giustizia si rispetta, e dove
Nulla si fa senza le leggi, ed osi
Colla forza strapparne le fanciulle?
E che? Credesti tu questa cittade
D’uomini vota, o serva, e me da nulla?
Tebe no certo a sì malvagi fatti
Non ti educò: chè Tebe in sè non chiude
Uomini ingiusti, nè vorrà laudarle
Quando sappia che tu di forza involi

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Le cose nostre, e quelle anco de’ Numi
Svellendo dagli altar con viölenza
I supplici infelici! — Io no, ponendo
Nella tua terra il piè, nulla, ove pure
Dritto ne avessi, ne trarrei, se il rege
Nol consentisse. Ch’io so ben quai modi
Tener si denno ov’altri è cittadino.
Ma tu la tua città, che non lo merta,
Disonori e te stesso, e manifesti
Che gli anni molti ti privar del senno.
Orsù tel dissi, e tel ridico: alcuno
De’ tuoi rimeni tosto le fanciulle,
Se contra voglia tua restar non vuoi
Abitator di questi luoghi. E quanto
Ti dico è frutto di consiglio sano.
coro.
Vedi, o stranier, di quai colpe sei reo?
Quì, che, pel sangue, ti diceano onesto,
Or malvagio ti chiamano.

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creonte.
Non io
Questa cittade o buon figlio d’Egèo,
Stimai, qual dici tu, d’uomini vota,
E di consiglio. A tanto eccesso io venni
Persuaso che nullo unqua de’ tuoi,
Contro la voglia mia cura prendesse
De’ miei congiunti, o li nutrisse. E certo
Quì accolto non dovrebbe esser costui
Parricida e mendico; e cui dier figli
Nefande nozze. Ed io so ben che il giusto
Areopago non vorrà che un tanto
Scellerato abbia in sua cittade albergo.
In ciò fidato io fei tal preda. E forse
Di farla io non ardìa, s’ei non avesse
Con orrendo imprecar me maledetto
E la mia stirpe. Offeso in somma offesi,
Che l’ira non si spegne che per morte,
E sol ne’ morti la vendetta è muta.
Or fa che più ti piace. Io son quì solo;

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E, benchè drittamente io parli, forse
Sopraffatto sarò: ma vecchio ancora
Opporrò forza a forza.
edipo.
O sozza o vile
Alma! Forse me vecchio insultar credi
Più che te stesso? Tu, che con parole
Di pudor vote rinfacciarmi ardisci
Gli omicidj le nozze e le sventure?
Involontarie colpe opra de’ Numi
Contro la stirpe mia forse adirati
Per antichi delitti! E qual delitto
In me ritrovi tu? Qual rio commisi
Contro me contro miei? Taci, e m’ascolta.
Se oracolo divin predice al padre,
Ch’ei perirà per man d’un figlio, e come
Me graverai di tal peccato? Me
Che nato ancor non era, anzi non era
Neppur concetto? Se, per fato, io poscia
Venni alle man col padre, e, se l’uccisi,

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Non conoscendo io ciò che mi facea,
Nè contro cui, rispondi, e con che fronte
Colpa mi dai d’involontario fatto?
Ma della madre mia pur tua sorella
Non diffami tu, perfido, le nozze
Me costringendo a ragionarne? Ed io
Non tacerò da che l’empia tua bocca
Tanto trascorse. Sì, madre ella m’era,
Nè il figlio, inesorabile destino!
Sapea la madre, nè la madre il figlio,
A cui diè figli infami. Ma, parlando
Tu, per proprio voler, di ciò che meglio
Fora tacer, non vedi che te stesso,
Più che me, disonori e la sorella?
Ch’io non volente a lei mi strinsi, ed ora
Pur non volente ne favello. Dunque
Nè per tai nozze, nè per quel medesmo
Parricidio, di che tu amaramente
Sempre mi pungi, io merto d’empio il nome.
Ma dì: se alcun te uccidere tentasse,

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Gli chiederesti tu, pria d’affrontarlo,
S’egli t’è padre? o tosto alla difesa
Metteresti il pensier? Certo m’avviso,
Che, se la vita ài cara, a porla in salvo
Pria ti daresti, e ratto in chi ti assalta
Volgeresti l’acciar, nulla guardando
Se l’ucciderlo sia giusto o non giusto.
Ecco l’abisso in ch’io caddi; e la mano
Mi vi spinse de’ Numi: onde la stessa
Ombra paterna rediviva, io credo,
Non potrebbe imputarmi. E tu che ingiusto
Ciò che può dirsi, o che tacer si debbe,
Egualmente riveli, e ten compiaci,
Tu me ne gravi alla costor presenza,
E lusinghi Teseo lusinghi Atene
Come cittade dove ben si vive,
E di sue laudi la più bella taci;
Vo’ dir quant’ella ogn’altra terra avanza
Nel venerare i Numi. E tu da questa
Città strappar me supplice pretendi,

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E prigioniero strascinarmi dietro
Alle rapite figlie? Io dunque a queste
Gran Dive porgo voti, e umilemente
Di soccorso le prego e le scongiuro,
Onde tu impari da qual giusto e forte
Popolo questa terra è custodita.
coro.
Buono o Rege è costui, ed infinite
Le sue miserie e degne di vendetta.
teseo.
Non più parole. I rapitor sen vanno
E offesi noi quì stiamo?
creonte.
E che pretendi
Da imbelle vecchio?
teseo.
Che la via mi segni;
E, dovunque celate abbi le care
Fanciulle, lo dichiari; chè se poi
Le si portan fuggendo i tuoi seguaci,

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Affannarci non giova. Avvi chi pensa
Ad inseguirli, sì che ai rapitori
Non fia mestier, per l’ottenuta palma,
Sciogliere il voto e ringraziare i Numi,
Non più; movi, e pon mente a che se’ giunto.
Rapisti, e preso se’ tu stesso; altrui
Opprimere volevi, e resti oppresso;
Quello che ingiustamente si guadagna
Conservar non si può. Tale avran fine
L’opre tue ree. Ben so che tu, nè solo,
Nè sprovveduto montasti in cotanta
Audacia di tentar così nefande
Cose; compagni hai tu che del lor braccio
Ti fur sostegno, ed io saper lo voglio.
Non si dirà giammai ch’un uomo solo
Atene soperchiò. M’intendi? o vano
Or tieni il mio poter come allor quando
L’inique trame macchinasti?
creonte.
Io nulla

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Ti contrasto. So ben quello che in Tebe
Farei.
teseo.
Minaccia, ma procedi. — Edipo,
Quì rimanti tranquillo, e t’assecura
Che, ove prima la morte non mi colga,
Non poserò, se a te novellamente
Render non faccio le tue figlie.
edipo.
Il cielo
Dia premio al generoso animo tuo,
E al giusto affanno che di me ti prendi.
coro.
Strofe 1.a
     Fussi pur io là dove
          Le radunate squadre agita il fero
          Nume guerriero dalla ferrea voce!
          O presso il tempio

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          Di Apollo Pitio,
          sugli splendidi
          Lidi di Eleusi,
          Ove di Cerere
          I riti serbano
Le venerande Dive, e degli Eumolpidi
Ministri un’aurea
Chiave la lingua affrena.
Ecco veder già parmi
Il bellicoso Teseo
Disceso in sull’arena:
E con alto fragore
Di gente armata, e d’armi
Battagliar per le due vergini suore.
Antistrofe 1.a
Ma da qual parte i perfidi
Alla pugna verran? Forse là dove
Ver l’occaso il brumal nembo di Giove
Lo scoglio imbianca d’Ea ricca di pascoli;

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Fuggiran de’ corsieri
Lo scontro o degli armisoni
Carri leggieri?
Sia che vuolsi, cadran, che insuperabile1
Del nostro Marte è l’impeto,
E de’ TesìdiFonte/commento: Pagina:Edipo Coloneo.djvu/163
Grande il vigor.
Ecco già stringono
I freni fulgidi,
E sopra i vario-
Bardati corridor salire anelano
Tutti che onorano
L’equestre Pallade,
E il Nume equoreo
Di Berecintia
Figlio ed amor.
Strofe 2.a
Incomincia la mischia, oppur sospese
Stanno ancor l’armi? Mi predice il core,

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Che le fanciulle da’ congiunti loro
Costrette a sopportar crudeli offese
In questo stesso giorno
Faranno a noi ritorno.
Deh! Giove adempia i miei presagi. Io sono
Delle vittorie il vate. Oh! se a me il cielo
Fesse dell’ali dono
Di celere colomba!
Dalle altissime nubi io scorgerei
Nella pugna avverati i voti miei.
Antistrofe 2.a
     O Giove egioco,
          Che tutto vedi,
          Se del tuo braccio
          A noi concedi
          La forte aita,
          Oggi da Teseo
          L’aspra fornita
          Pugna sarà.

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     E tu, Dea vergine.
          Che del Saturnio
          Giove se’ nata,
          Minerva Pallade,
          E, divo Apolline,
          E, casta Cintia,
          Che i cervi rapidi
          Insegui armata;
          O voi dall’etere
          Tutti scendete,
          E soccorrete
          Questa città.

Note

  1. [p. 160 modifica]Con questa interpunzione legge Johnson; e si è seguìta perchè pare che accresca alle sentenze vivacità e forza.