Duemila leghe sotto l'America/X. L'acqua salata

Capitolo X. L’acqua salata

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IX. Un terribile pericolo XI. Il vortice

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CAPITOLO X.

L’acqua salata.

Cosa stava per succedere? Quale pericolo minacciava gli audaci cercatori dei tesori degli Inchi? Nessuno avrebbe saputo dirlo.

L’ingegnere e i cacciatori, aggrappati ai bordi del battello, colla testa all’insù, gli occhi sbarrati, fissi nella orrenda tenebra che celava forse una imminente catastrofe, attendevano il pericolo, pallidi e col cuore stretto da un’angoscia indescrivibile.

L’Huascar, col forno ricolmo di carbone, filava rapido come una rondine marina, fendendo le acque con un fremito sonoro. Morgan aveva caricato le valvole in modo tale da temere che la macchina scoppiasse; ma nessuno però pensava, in quel momento, a questo pericolo che pure non era meno temibile di quello che li minacciava. Le lastre metalliche tremavano sotto i colpi dell’elica che turbinava disperatamente fra le spumeggianti acque e il fumo non trovava posto sufficiente per uscire dal camino.

L’ingegnere, ancora padrone di sè stesso, ascoltava i rumori che venivano dall’alto, ritto sul banco di prua, accanto ad una lampada. Malgrado i colpi precipitati dell’elica, malgrado i muggiti della macchina e i fischi del vapore, udiva sulla sua testa cupi fragori, sordi boati, come [p. 77 modifica] esplosioni soffocate; come un lontano precipitare di valanghe.

Invano alzava la lampada, invano gettava in aria dei carboni accesi, invano si allungava: la vôlta, senza dubbio altissima, rimaneva sempre invisibile.

Dieci minuti erano trascorsi senza che la situazione, o meglio, quella angosciosa agonia fosse cangiata.

L’Huascar correva sempre, sbuffando, fischiando, muggendo, sconvolgendo le acque e i fragori della vôlta crescevano sempre di intensità, destando tutti gli echi di quel lago del quale non si scorgevano ancora i confini.

Ad un tratto una larga goccia d’acqua cadde sul viso di Burthon.

— Piove!... gridò.

— Piove! esclamò sir John.

Sulla superficie del lago si udì un vivo scrosciare che diventò ben presto intenso. Cosa strana! Pioveva a dirotto da tutte le parti.

— Che ci sieno delle nubi in questo sotterraneo? chiese O’Connor.

— No, disse sir John. Senza dubbio sopra di noi esiste un bacino sotterraneo e l’acqua filtra attraverso le rupi.

— Zitto, signore, disse Morgan. Ascoltate!

In fondo al lago si udì un cupo fragore, simile a quello che produce una cateratta precipitando da una grande altezza, poi si udirono dei tonfi formidabili come se dei macigni piombassero nelle acque. Un’onda enorme, spumeggiante, venne a urtare il battello il quale rollò furiosamente.

— Attenti alle vostre teste! gridò sir John. La vôlta frana! [p. 78 modifica]

Un fracasso orrendo, spaventevole soffocò la sua voce. La immensa vôlta, scossa chissà mai da quale fenomeno, franava in cento luoghi. Rupi intere, macigni colossali, rottami d’ogni sorta precipitavano dall’alto solcando le tenebre con sordi fischi inabissandosi e sollevando le acque a mostruosa altezza. Qua e là, da quegli squarci rovesciavansi, assieme a una vera tempesta di sassi, furiosi torrenti con muggiti giammai uditi.

Era una scena terribile, resa ancor più terribile dalla profonda oscurità.

Il battello, urtato da tutte le parti, ora sollevato a prodigiosa altezza e ora scagliato in profondissimi abissi dai quali penava uscire, non correva quasi più. Si raddrizzava, si impoppava, si sbandava a tribordo, si rovesciava a babordo, cacciato innanzi o risospinto.

Vi erano certi momenti che la prua scompariva tutta intera nel seno delle acque spumeggianti mentre l’elica girava nel vuoto.

Burthon, O’Connor e Morgan, atterriti, assordati, acciecati dall’acqua, ora precipitati contro una murata e ora contro l’altra, non sapevano più in che mondo fossero. Solamente l’ingegnere conservava un po’ di calma in mezzo a quell’orrendo tramestìo d’acqua e a quella grandine di rottami che oscurava talvolta la rossastra luce delle lanterne.

Dopo di esser stato rovesciato s’era gettato a poppa aggrappandosi alla barra del timone. La sua voce risuonò come una tromba fra i muggiti delle acque e i tonfi dei macigni.

— Morgan! alla tua macchina! Coraggio amici!

Il macchinista, malgrado i disperati rollii del battello si precipitò verso il forno che stava per essere spento dall’acqua. Afferrò tre o quattro [p. 79 modifica] pezzi di carbone, li gettò nel braciere e chiuse lo sportello.

La macchina che stava già per arrestarsi, nuovamente alimentata ricominciò a funzionare rapidissimamente. Il battello, rollando sempre assai, fuggì verso il sud salendo le ondate che l’assalivano da tutte le parti urlando come una banda di molossi.

Il franamento non era ancor terminato. A prua, a poppa, a babordo, a tribordo, s’udivano i macigni staccarsi e inabissarsi tormentando le acque per ogni dove.

Quattrocento metri erano stati già percorsi dal battello, quando una nuova convulsione agitò la vôlta dell’immensa caverna. Enormi frane capitombolarono nel lago le cui acque si risollevarono con nuova furia. Ad un tratto uno strano spettacolo s’offerse agli occhi dell’ingegnere e dei suoi compagni.

Per di qua, per di là, in alto e in basso dei punti luminosi apparivano. Sembravano stelle, ma stelle impazzite, che danzavano disordinatamente, ora slanciandosi in alto, ora orizzontalmente, tracciando lunghe traiettorie, ora apparendo e ora scomparendo. Cosa strana, inaudita, incredibile: quei punti luminosi, quei fuochi o stelle che fossero, sorgevano tutti dalle acque e vi ricadevano per poi ritornare fuori e ancora precipitare.

— Che sono quelle cose là? esclamò il meticcio. È la fine del mondo questa?

Proprio in quell’istante si udì O’Connor gridare:

— Macchina indietro, Morgan!

— Che c’è? chiese sir John.

— Abbiamo la spiaggia dinanzi.

— Vira e seguiamola. [p. 80 modifica]

L’Huascar virò di bordo e si mise a correre parallelamente alla costa. Quindici minuti dopo si trovava dinanzi ad una grande galleria entro la quale scaricavansi le acque del lago.

Sir John comandò di entrarvi. Era tempo! Un istante dopo un nuovo e più grande franamento accadeva sollevando mostruose ondate.

L’Huascar percorse cinque o seicento metri, poi si arrestò presso un’alta sponda che pareva inaccessibile.

— Siamo salvi! esclamò O’Connor, che tremava ancora. Non credeva di uscir vivo da quella caverna.

— Siamo sulla buona via? chiese Morgan.

— Lo spero, rispose l’ingegnere.

— Metti a bollire la pentola, marinaio, disse Burthon. La paura mi ha messo indosso una fame feroce. Non dimenticare le testuggini che abbiamo pescate.

Il marinaio si mise tosto al lavoro mettendo a bollire le testuggini, dei legumi e del pemmican.

Due ore dopo offriva ai compagni una zuppa che mandava un profumo tale da mettere appetito al più malandato tisicuzzo dell’orbe terracqueo, come diceva il meticcio.

Sir John, Burthon, O’Connor e Morgan si assisero intorno alla pentola. Il secondo, che era il più affamato, diede subito l’assalto, ma alla prima cucchiaiata che inghiottì fece una brutta smorfia.

— Ehi, marinaio, gridò. Hai messo un chilogramma di sale in questa zuppa?

— Perchè? chiese O’Connor sorpreso.

— È orribilmente salata, disse sir John che l’aveva assaggiata.

— Eppure non ho messo che un pizzico di sale, signore. [p. 81 modifica]

— Che acqua hai adoperato?

— Quella di questo fiume.

— L’hai assaggiata prima?

— Io no.

— Riempisci un bicchiere.

Il marinaio prese una tazza, la tuffò nel fiume e la portò colma all’ingegnere che subito l’assaggiò.

— Amici! esclamò con viva emozione. Quest’acqua è salata più di quella del mare.