Duemila leghe sotto l'America/IX. Un terribile pericolo

Capitolo IX. Un terribile pericolo

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VIII. Un polipo gigante X. L'acqua salata

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CAPITOLO IX.

Un terribile pericolo.

Al grido d’allerta dell’ingegnere e di Burthon, O’Connor e Morgan, ancora mezzi assonnati, erano saltati in piedi precipitandosi verso prua. Uno spettacolo spaventevole, capace di agghiacciare il sangue all’uomo più coraggioso delle due Americhe, s’offerse tosto ai loro occhi.

Là, a due passi dallo sperone, un mostro enorme, orribile, galleggiava fissando su di loro due occhi grandissimi dai glauchi colori. Era una massa di trentamila chilogrammi, fusiforme, gelatinosa, grigiastra, armata di un enorme becco corneo, curvo come quello di un pappagallo, che aprendosi mostrava una lingua dura, irta di lunghi denti aguzzi. Attorno alla sua smisurata testa, otto braccia lunghe non meno di quindici metri, fornite di innumerevoli ventose, si dipartivano, e agitandosi nell’aria spargevano all’ingiro un fortissimo odore di muschio. Quell’essere mostruoso, sconosciuto, doveva essere senza dubbio terribile.

L’ingegnere e gli avventurieri atterriti, si erano gettati indietro.

— L’orribile mostro! esclamò Morgan.

— Che bestia è quella lì? chiese O’Connor con un filo di voce.

— Non ho mai visto nulla di simile! esclamò Burthon. [p. 68 modifica]

— Stiamo in guardia, amici, disse sir John che aveva ricuperato istantaneamente il suo sangue freddo. Abbiamo da combattere un nemico capace di trascinarci in fondo agli abissi assieme al battello.

Aveva appena finito di parlare che una di quelle smisurate braccia s’allungò sferzando l’aria. Esitò un momento descrivendo curve capricciose, come cercasse un posto adatto per posarvisi, poi piombò furiosamente sul piccolo bombresso imprimendo al battello una scossa violentissima da prua a poppa. Un’onda di considerevole volume s’infranse, muggendo e spumeggiando, contro la prua che si sommerse più che mezza.

Sir John con un solo balzo fu sullo sperone. La scure scintillò un istante nell’aria poi cadde con forza irresistibile su quel tentacolo tagliandolo nettamente a un terzo d’altezza.

— All’erta! gridò egli. Armatevi di scure!

L’orribile mostro, così sconciamente mutilato, era diventato d’un color bruno rossastro. I suoi occhi s’ingrandirono straordinariamente, l’enorme suo becco s’aprì con uno scricchiolìo sinistro e i suoi otto tentacoli batterono le acque con rabbia estrema sollevando vere ondate. L’attacco era imminente.

I quattro uomini, stretti a prua, risoluti a lottare fino all’estremo, si tenevano pronti a respingere l’assalto che doveva senza dubbio essere violento. Un solo tentacolo sarebbe bastato per avvilupparli e soffocarli con una sola stretta.

— Attenzione! gridò sir John.

Il mostro s’avvicinava muovendo burrascosamente la negra fiumana. I suoi tentacoli si slanciarono in aria con impeto furioso e cercarono d’aggrapparsi ai bordi del battello e d’avvolgere [p. 69 modifica] gli uomini che c’erano dentro. Una battaglia feroce s’impegnò al vacillante chiarore delle lampade.

I quattro uomini armati di scuri si battevano con disperata energia, picchiando per ogni dove colpi formidabili, sprofondando le loro armi in quelle masse carnose, dalle quali uscivano torrenti di liquido gelatinoso e nauseante. Già quattro tentacoli erano stati mozzati ed un quinto schiacciato quando il mostro giunse presso il battello inondandolo con una scarica d’un liquido nero, simile all’inchiostro, impregnato di muschio. Aprì quindi il becco e lo chiuse contro lo sperone di acciaio che gemette come fosse lì lì per ispezzarsi. Il battello, scosso furiosamente, inclinossi a babordo imbarcando una mezza tonnellata di acqua. O’Connor, sir John e Burthon caddero l’un sull’altro, ma Morgan rimase in piedi.

L’intrepido macchinista alzò la scure e percosse furiosamente e per ben tre volte il mostro, il quale, colpito mortalmente abbandonò subito il battello. I tentacoli che ancor gli restavano batterono per qualche istante le acque, i suoi occhioni brillarono un’ultima volta gettando sinistri bagliori, poi s’enfiò, divenne livido, poi rossastro, s’agitò convulsivamente indi s’irrigidì lasciandosi trascinare dalla corrente.

Il battello con pochi colpi di remo lo raggiunse e Morgan l’ormeggiò a tribordo con un solido rampone.

— È proprio morto, disse l’ingegnere che si era subito rialzato.

— Ma è orribile! esclamò O’Connor.

— Schifoso, disse Burthon, che rabbrividiva ancora. Non ho mai visto un bestione simile. Dimmi, marinaio, ne hai incontrati sul mare, di questi mostri? [p. 70 modifica]

— Mai, Burthon, rispose l’irlandese. Eppure ho fatto dodici volte il giro del globo.

— Ma che bestia è mai questa? chiese Morgan. Un mostro di nuova specie, forse?

— No, disse sir John, che osservava attentamente il cadavere. È un polipo gigante, un cefalopodo.

— E come mai si trova qui?

— Non saprei dirtelo. Forse in fondo al fiume ve ne sono degli altri.

— Ma sono proprio pericolosi questi mostri? chiese Burthon.

— Pericolosissimi, mio caro. Se uno di quei tentacoli ti piglia, prima ti fracassa le reni, poi ti succhia il sangue per mezzo delle duecentocinquanta ventose che sono disposte sulla faccia interna.

— Poteva affondarci il battello?

— Poteva non solo affondarlo ma trascinarlo negli abissi.

— Ringrazio Morgan di averlo accoppato.

— Deve avergli spaccato tutti e tre i cuori, disse sir John.

— Tre cuori! Hanno tre cuori forse, simili mostri?

— Sì, Burthon.

— Sicchè, tagliandone uno, gli altri due funzioneranno egualmente.

— Così deve essere.

— To’, questa è curiosa. E tagliando un paio di tentacoli non muore il mostro?

— Mai più, anzi si dice che dopo sette anni i tentacoli tornano interi come prima.

Il meticcio sbarrò gli occhi e la bocca.

— È incredibile! esclamò.

— Meno di quello che tu credi. Non si riproduce anche il cervello?

— Questo non lo crederò, signore, disse il testardo meticcio. [p. 71 modifica]

— Hai torto, Burthon. Se tu levi il cervello ad un piccione, per esempio, vedi il volatile perdere subito l’uso dei sensi. Se tu lo nutrisci e lo curi, il cervello lentamente si riproduce e il volatile ritorna in sè riacquistando gli istinti e l’intelligenza di prima.

— È cosa strana, disse Morgan, che prestava molta attenzione alle parole dell’ingegnere.

— E qui non è tutto, riprese sir John. All’università di Boston un celebre professore mi ha detto che anche le teste si riproducono.

— Anche le teste?

— Sì, Burthon, anche le teste. Se tu tagli la testa ad un lombrico, o verme terrestre, la vedi riprodursi. Carlo Bonnet, avendo tagliato ben dodici volte la testa allo stesso verme, la vide rinascere tutte le dodici volte.

— Sicchè, disse Morgan, certi esseri non si uccidono decapitandoli.

— No, e ve sono taluni che non muoiono nemmeno se vengono tagliati a pezzettini. Taglia una naide in dieci, in venti, in trenta pezzetti e vedrai formarsi, di tutti quei pezzettini altrettanti naidi. Taglia un’idra e ti succederà lo stesso. È incredibile, ma pur vero.

— E le teste degli uomini perchè non si riproducono? chiese O’Connor.

— La testa e le membra degli uomini e così pure di altri animali, non si riproducono in causa dell’importanza e della individualità che hanno acquistato. La vita dell’uomo è sempre concentrata nel cuore e nel cervello: offeso l’uno o l’altro, la vita è forzata a spegnersi.

— Mi rincresce, disse Burthon. Che bella cosa che sarebbe, se la mia testa si riproducesse!

— Non avrebbero certamente inventato quella [p. 72 modifica] brutta macchina che si chiama la ghigliottina, disse sir John.

— Lo credo, signore. Ma, ditemi, se si tronca la testa ad un uomo, si spegne subito la vita?

— No, a quanto pare. Infatti, se levi il cuore ad un decapitato, lo vedi palpitare ancora e talvolta per cinquanta o sessanta secondi.

— Corbezzoli!

— Il signor Petitgand, al Giappone, assistette ad una decapitazione. La testa del condannato, portata via da un vigoroso colpo di catane (specie di larga scimitarra) cadde sulla sabbia, ma in maniera che la ferita aderiva al suolo impedendo così l’uscita del sangue. Gli occhi del giustiziato si fissarono sul signor Petitgand che era vicinissimo, lo seguirono per qualche tratto poi si spensero tutto d’un colpo.

— E come era la faccia di quel giapponese? chiese Morgan.

— Orribilmente alterata. Esprimeva una straziante angoscia, come di uno che è in istato di asfissia acuta. Anzi il signor Petitgand vide la bocca aprirsi e poi chiudersi.

— È sorprendente, signore, disse il macchinista. Staccata la testa la morte dovrebbe essere immediata.

— E tornando indietro, la carne del polipo è buona a mangiarsi? chiese O’Connor che pensava alla sua cucina.

— Ti piace la carne del caimano?

— No! no! Puzza orribilmente da muschio.

— La carne del polipo non è diversa da quella del caimano.

— Che disgrazia! C’era lì tanta roba da nutrirci per sei mesi.

— Orsù, basta, disse sir John, abbiamo [p. 73 modifica]L’intrepido macchinista alzò la scure e percosse furiosamente il mostro... Cap. IX. [p. 74 modifica] chiacchierato troppo e la strada è lunga. Ehi, Morgan, riaccendi la macchina.

Morgan accese il fornello e ottenuta la pressione necessaria lanciò il battello innanzi.

La galleria andava allora allargandosi considerevolmente, formando un vasto bacino che potevasi chiamare un laghetto.

L’ingegnere e i suoi compagni ad un certo punto videro nell’acqua numerosissime striscie abbaglianti, specie di rapidissimi lampi, prodotti senza dubbio da certi velocissimi pesci dalla pelle fosforescente.

O’Connor, che pensava sempre al pranzo o alla colazione, volle approfittare dell’occasione e malgrado la rapidità del battello che non era inferiore ai dodici nodi e trentasei centesimi, gettò le reti. Pochi minuti dopo le ritirava così cariche di pesci da temere che le maglie si rompessero.

L’ingegnere li esaminò attentamente. Alcuni erano orribili con una grossa testa a cavi e a protuberanze acute assai e disuguali, il corpo piuttosto lungo ma anche questo irto di strani tubercoli e una brutta coda guernita di callosità.

— Sono pesci sconosciuti? chiese Burthon.

— Questi così brutti somigliano assai a certi pesci dell’oceano Indiano chiamati rospi di mare.

— È buona la carne?

— I rospi di mare sono cattivi e per di più sono pericolosi per le loro punte che cagionano orribili ferite.

— Sicchè non si mangiano. Se devo dire la verità non ero disposto a metterli nella pentola, disse O’Connor. E gli altri non si mangiano?

— Queste qui sono testuggini, ma senza dubbio della razza dei pigmei, rispose l’ingegnere. Somigliano assai alle testuggini di mare del genere [p. 75 modifica] chelonia embricata, la cui carne generalmente è mediocre.

— Se è mediocre noi la faremo diventare eccellente, disse Burthon. Faremo bistecche e....

Il meticcio non terminò. Si era bruscamente arrestato colla testa in aria e gli occhi sbarrati.

— Oh!... esclamò egli. Ascoltate sir John.

— Cosa odi?

— Lassù.... verso la vôlta succede qualche cosa.

Sìr John e i suoi compagni alzarono la testa; un brivido corse per le loro ossa. Lassù, verso la vôlta, succedeva qualche cosa di straordinario, un fenomeno sconosciuto e forse pericoloso. S’udiva uno strano ronzìo, che pareva s’avvicinasse con molta rapidità.

— Che frani la vôlta? domandò O’Connor che istintivamente si coprì la testa colle mani.

— Può essere. State zitti.

Morgan arrestò il battello e ognuno si pose in ascolto trattenendo il respiro. Quel misterioso ronzìo diventava sempre più forte e avvicinavasi sempre più. Pareva che tutta la vôlta fosse in movimento e lì lì per screpolarsi e precipitare.

L’ingegnere provò una stretta al cuore. Quel pericolo sconosciuto, forse imminente, forse spaventevole, lo sgomentava.

— Ebbene? chiese il meticcio che era diventato pallidissimo.

— Non so cosa dire, rispose sir John incrociando tranquillamente le braccia. L’oscurità non mi permette di vedere il pericolo che ci minaccia.

— E che facciamo? domandò O’Connor battendo i denti pel terrore e guardando con rabbia la profonda tenebra accumulata sotto l’immensa vôlta.

— Macchina avanti e a tutta celerità. Forse la catastrofe che temiamo è ancora lontana.