Duemila leghe sotto l'America/III. La caverna del Mammouth
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CAPITOLO III.
La caverna del Mammouth.
Nessuna caverna del vecchio mondo, per ampiezza, per profondità e per bellezza può gareggiare colla caverna del Mammouth del Kentucky.
Quest’immenso antro che s’addentra nei fianchi di una montagna e che scende nelle viscere della terra trasformando il suolo in una spugna colossale, dovuto chissà mai a quale spaventevole cataclisma, trovasi a breve distanza dal Green-River, quasi nel cuore del Kentucky.
Parrebbe che una simile caverna dovesse avere un’apertura smisurata, invece tutt’altro. Vi si penetra per una specie di pozzo di quaranta piedi di profondità e largo a malapena tre metri, il quale riceve, verso uno degli angoli, le acque di un ruscello che vi si precipitano dentro con un fragore diabolico, udito, là sotto, a grande distanza. La più vigorosa descrizione non può dare che una pallida idea di questa caverna della quale gli americani del nord vanno superbi.
È un caos di tenebrosi corridoi che salgono nel monte, che scendono nelle viscere della terra or dritti, or spezzati, or vasti e alti, or stretti e tanto bassi da urtarvi colla testa; è un caos di cupole splendide, di antri bizzarri, di celle e cellette, di vôlte immense interrotte da mille rientramenti e da mille sporgenze, di archi spaventevoli, di colonne smisurate, traforate, tagliuzzate, le cui cime si smarriscono sovente nella profonda tenebra, di abissi orribili, di cavi strani, misteriosi, entro i quali vivono bianchi grilli che metton ribrezzo, di torrenti limpidi che scorron su letti di bianche pietre, or con lieve mormorio, or con foga irresistibile empiendo i sotterranei di mille fragori, di mille muggiti che l’eco ripete incessantemente di caverna in caverna; è infine un caos di meravigliose cristallizzazioni, di minareti turchi, di alberi, di spirali, di fiori superbi tagliati nel più puro alabastro, di stalattiti e di stalagmiti di mille forme e dimensioni che irradiano fantastici bagliori e di centomila specie di marmi, bianchi gli uni, verdi come lo smeraldo gli altri, rossi come rubini, gialli come topazi, cilestri come zaffiri, venati d’argento, costellati, scintillanti. Si direbbe che una fata ha dato convegno in quei tenebrosi antri a tutte le gemme della terra!
E là sotto quella montagna minata, sventrata in centomila guise che ammirasi il Gabinetto di Cleveland che pare, colle sue meravigliose cristallizzazioni, lavorato o costrutto dalle mani di mille artisti; è là che ammirasi la caverna delle Palle di neve scavata in un blocco immenso di candido marmo e sparsa di ammassi di palle che mettono i brividi; è là che ammirasi la Culla di Pereva le cui pareti sembrano coperte da una panneggiatura di pietra gialla e le cui pieghe maestose presentano alla vista le pitture d’un telone da teatro; la Sala delle Ombre, tomba degli antichi indiani e al cui centro giganteggia il bianco scheletro di un mastodonte; la Cupola di Yung tanto alta da non essere possibile distinguerne la vôlta nemmen colle più potenti lampade; la Valle dell’Eco le cui ripercussioni sorprendono, spaventano e fan quasi credere che una legione di folletti si nasconda nei bui antri: la Dimora degli Invalidi entro la quale vegetano i malati di petto, la Cupola Stellata, immensa, superba, costellata di migliaia e migliaia di faccette che scintillano stranamente ai chiarori delle fiaccole; è là infine che ammirasi il Mar Morto, nera e tranquilla superficie d’acqua che perdesi sotto cupe vôlte e che all’estremità di una spaventevole galleria apresi il misterioso Maelstroom, il gran baratro che doveva menare l’ingegnere e i cacciatori alla scoperta dei famosi tesori degli Inchi.
Fedeli agli ordini ricevuti da sir John, Morgan, Burthon e O’Connor, venduti quei pochi oggetti che possedevano, alloggiavano da quindici giorni in uno di quei numerosi alberghi che sorgono nelle vicinanze della meravigliosa caverna.
Avevano stretta intima amicizia colle guide, alle quali pagavano spesso qualche bottiglia di wiscky o di gin e fingendosi appassionati geologi, avevano visitato minutamente la caverna e specialmente la galleria che metteva capo al Maelstroom.
Il sedicesimo giorno, nel momento che Morgan scendeva le scale dell’albergo per recarsi nella caverna, s’imbatteva nell’ingegnere Webher allora allora giunto.
— Di già, signore? chiese Morgan, stringendo vigorosamente la mano che sir John gli porgeva.
— Conducimi nella tua stanza, poi parleremo.
Morgan lo fece entrare in una stanza arredata con eleganza e gli offerse una comoda sedia.
— Tutto è pronto, disse sir John. A due miglia da qui, sull’orlo di un bosco, c’è il carico.
— È pesante?
— Cinquemilatrecento chilogrammi.
— Cinquemilatrecento chilogrammi! esclamò il cacciatore sbarrando gli occhi. In che consiste questo carico?
— In un battello a vapore, tutto d’acciaio, per salire o scendere il fiume segnato dal documento.
— Ma come faremo a calarlo nel Maelstroom?
— È a pezzi e ogni pezzo non pesa più di sessanta o settanta chilogrammi. Anche la macchina è smontata.
— E il resto del carico?
— È formato dai viveri, carbone, olio per le lampade, armi, vesti, apparecchi Rouquayrol...
— Apparecchi Rouquayrol?
— Nel nostro viaggio dovremo forse affrontare certi luoghi ove l’aria non sarà respirabile.
— Avete pensato a tutto, signore. E chi ci aiuterà a far scendere il carico e a trasportarlo sull’orlo dell’abisso?
— Le guide e cinquanta negri che ho fatti venire dalla piantagione di un mio amico ci presteranno man forte. Ora va a chiamarmi il capo delle guide.
Un’ora dopo il capo delle guide della caverna si presentava all’ingegnere e aveva con questi un lungo colloquio, dopo di che si recavano tutti e due a visitare il misterioso abisso e a collocare alcuni paranchi che dovevano servire a calare il carico.
La stessa sera l’ingegnere offriva alle guide e ai cacciatori un lauto pranzo in un elegante salotto di uno dei migliori alberghi. Alle 9 la brigata lasciava la tavola e si recava alla caverna presso la quale stava fermo un gran forgone tirato da sei vigorosi cavalli e circondato da cinquanta robusti negri. In quel forgone c’era l’intero carico che doveva servire agli audaci cercatori dei tesori degli Inchi.
— Al lavoro, disse l’ingegnere. Prima dell’alba bisogna che tutto sia finito onde nessuno sappia che noi entriamo nelle viscere della terra.
— E non parleranno le guide? gli chiese Morgan in un orecchio.
— Mi hanno giurato che manterranno un silenzio assoluto e io li credo uomini d’onore.
Burthon, Morgan, il capo delle guide con dieci dei suoi uomini e venti negri muniti tutti di torcie e di lampade si calarono nella caverna; l’ingegnere, Morgan e gli altri, fissati numerosi paranchi cominciarono a scaricare il forgone e a far scendere i colli ognuno dei quali non pesava più di sessanta chilogrammi.
In meno di due ore i pezzi del battello, la macchina, le provviste, gli istrumenti, le vesti, le armi, tuttociò insomma che l’ingegnere aveva acquistato, giacevano nel fondo del pozzo. Non restava che di trasportarli sull’orlo del Maelstroom.
Sir John fece riposare un po’ i suoi uomini, li rinforzò con un’abbondante razione di wisky, poi, distribuite parecchie torcie, diede il segnale di mettersi in marcia.
I cinquanta negri, le guide e i tre cacciatori, carichi come muli, intrapresero animosamente il primo viaggio conservando il più assoluto silenzio.
Aspra era la via, ora ascendente ed ora discendente, interrotta di quando in quando da furiosi torrenti che si precipitavano da alte rupi entro profondi crepacci, da macigni enormi, da vie sdrucciolevolissime ove era difficile a tenersi in piedi, ma quegli uomini possedevano delle gambe di ferro ed erano forti come ercoli.
Ad un’ora del mattino la carovana giungeva sull’orlo dell’abisso, dal cui fondo salivano certi fragori da mettere indosso un certo timore.
L’ingegnere rimandò cinquanta uomini a prendere il resto del carico, poi si curvò sull’abisso calando una lampada appesa ad una funicella.
— Si vede nulla? chiese Burthon.
— Assolutamente nulla, rispose l’ingegnere.
— Da che proviene questo fragore?
— Da una cascata d’acqua, rispose l’ingegnere. Il documento la segna. Chi scende pel primo?
— Io, disse Morgan.
— Io, disse Burthon.
— Se fossi certo di non imbattermi in qualche spettro scenderei anch’io, borbottò O’Connor che non era meno superstizioso dei suoi compatriotti.
— Dò la preferenza a Morgan, disse l’ingegnere.
Il cacciatore si assicurò alla cintura una lampada di sicurezza e si mise a cavalcioni di una sbarra di ferro sospesa a due solide funi.
— Hai paura? gli chiese l’ingegnere, che provò una stretta al cuore. L’ignoto spaventa anche i più coraggiosi, Morgan.
— Non ho paura, rispose il cacciatore.
— Calatelo, disse sir John alle guide.
La fune cominciò a svolgersi lentamente scorrendo nel boscello e l’audace cacciatore principiò la spaventevole discesa in quella gola misteriosa che forse gli preparava delle terribili sorprese.
L’ingegnere, pallido assai, seguiva collo sguardo Morgan che si teneva aggrappato alla fune con ambe le mani, e trepidava ad ogni oscillazione della sbarra. La sua voce di quando in quando dominava i sordi boati che salivano dal baratro.
— Hai paura? chiedeva.
— No, rispondeva invariabilmente Morgan.
Era scorso un minuto, lungo per quegli uomini quanto un secolo, quando la fune improvvisamente deviò. L’ingegnere, che s’era tirato indietro, ritornò rapidamente sull’orlo dell’abisso e guardò giù.
— Ferma! comandò con voce soffocata.
— Che succede? chiesero, fremendo, i cacciatori e le guide.
— Non vedo più la lampada e la corda non è più tesa, rispose sir John.
— È impossibile! esclamarono Burthon e O’Connor che si sentirono bagnare la fronte d’un gelido sudore.
— Zitto, disse l’ingegnere. Odo la voce di Morgan.
Si curvò nuovamente sull’abisso e tese gli orecchi rattenendo il respiro. Fra i sordi muggiti che salivano udì la voce di Morgan.
— Ferma! gridava l’intrepido cacciatore.
— Sei giunto al fondo? domandò sir John.
Sia che la sua voce non potesse giungere laggiù pel fragore delle acque o che, non ottenne risposta, però, a quaranta piedi di profondità scorse improvvisamente la lampada che pareva uscisse dalla parete e sentì la fune tendersi e ondeggiare.
— Lascia scorrere! s’udì gridare nell’abisso.
La fune continuò a svolgersi altri cento piedi, poi tornò a perdere la sua tensione. L’ingegnere guardando giù scorse un punto luminoso appena visibile.
— È giunto, diss’egli.
Aspettò cinque minuti poi ritirò la corda, all’estremità della quale vide appeso un foglietto di carta piegata in quattro e inzuppato d’acqua. L’aprì e lesse le seguenti parole scritte con una matita: «Sono giunto senza malanni. Potete scendere senza timore.»
— A te, Burthon, disse l’ingegnere.
— Eccomi, signore, rispose il meticcio.
Si pose a cavalcioni della sbarra e discese felicemente, in meno di due minuti. O’Connor, dopo aver un po’ esitato, seguì i compagni.
— Ora, disse l’ingegnere volgendosi alle guide, caliamo il carico.