Due carte inedite in lingua sarda dei secoli XI e XIII
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DUE CARTE INEDITE IN LINGUA SARDA
DEI SECOLI XI E XIII
L’illustre e compianto professore di paleografia e diplomatica, che fu Filippo Jaffè, trovandosi in Toscana nell’aprile del 1868, volle recarsi a vedere il nuovo archivio di Stato, e gli altri archivi pubblici e privati che sono in Pisa. Que’ preziosi depositi di antiche memorie conservate in tanta copia in una sola città gli parvero così rara e mirabile cosa, che’ non cessava dal render lode agli italiani di aver salvato con amorosa custodia dalle fortunose vicende de’ tempi i monumenti della loro storia; e considerando con particolare attenzione le carte che concernevano anche alla storia della sua patria, e specialmente i diplomi imperiali, ebbe a dirmi che non vi ha studioso ricercatore de’ documenti della cancelleria imperiale germanica, anco tedesco, al quale perciò non faccia mestiere di venire in Italia. Queste parole del dotto berlinese mi tornarono presenti nella memoria due anni più tardi, quando ebbi notizia che il conte Baudi di Vesme avea fatto invito alla R. Accademia delle Scienze di Berlino di sottoporre ad esame la questione della autenticità dei documenti sardi, che sono oggimai conosciuti sotto il nome di Carte d’Arborea. E le ripensai con dolore, che se fu ragionevole il desiderio del Vesme che sopra quell’importante argomento fosse pronunziato un giudizio imparziale e autorevole, contuttochè mi pareva che gli italiani, i quali vanno invidiati per tanta ricchezza di monumenti storici e paleografici, dovessero volere e saper definire una questione di paleografia e di storia d’Italia senza l’aiuto degli stranieri. Se non che la sentenza proferita dai giudici di Berlino, che dichiarò false quelle carte, non è riuscita a dirimere la controversia, dappoichè non abbia ricevuto autorità di giudicato inappellabile dal comune consentimento delle parti contrarie. Il conte Vesme invero ha preso a combatterla con quella dottrina di cui è così largamente fornito; e i seguaci stessi di lei, quasi non fossero pienamente sicuri che sia irrevocabile, tuttodì si danno a sostenerla con nuovi argomenti. Peraltro non mancano ragioni per dubitare che da questa viva contesa non venga dato poi di raccogliere frutto proporzionato a quel tanto d’ingegno, di studio e di tempo che vi si adoperano; e il dubbio si fa maggiore se si consideri come gli avversari di quelle povere carte non sempre siano concordi tra loro, e come anzi talvolta gli uni si oppongano agli argomenti e ai giudizi recati innanzi dagli altri: di che ha dato esempio recente monsignore Ernesto Liverani, il quale, mentre intima al Vesme che si arrenda ad una sua osservazione sopra una sola delle parole scritte nelle carte arboreesi, che basta a parer suo a dimostrarle evidentemente false ed opera di svergognata impostura, nega al Jaffè ed al Tobler il diritto di movere contro di esse l’accusa di falsità, e concede loro unicamente quello di dichiararle sospette1. A me sembra pertanto che si giungerebbe sicuramente a sbrogliare, come altri disse, questa arruffata matassa, e a conoscere il vero intorno al famoso ritmo di Deletone e a quella eletta e numerosa schiera di poeti fiorentini, pisani, genovesi, vercellesi, veneti e pavesi che al cominciare del secolo XII avrebbero cantato in rime volgari, indirizzandogli studi per altra via, se non più breve, certamente meno ingrata e più fruttuosa di quella percorsa finora dai contendenti; cioè col ricercare e pubblicare i documenti di certa fede che sono tuttora inediti pe’ nostri archivi, e non senza vergogna nostra dimenticati, da’ quali può venire illustrata la storia d’Italia dal VII al XII secolo. Avvegnaché non potendosi ricusare da alcuno la autorità delle prove che da tali pubblicazioni sarebbero somministrate, sia che tornassero favorevoli ovvero contrarie alla sincerità delle carte che ebbero l’origine in Oristano e il nome da Arborea, si avrebbe certezza non solo di risolvere definitivamente la disputa, ma e di rendere ad un tempo un segnalato servigio agli studi della storia patria.
Con tale intendimento dò alla luce due carte inedite in lingua sarda dei secoli XI e XIII, tratte dall’archivio di Stato di Pisa. Ad agevolare agli studiosi la intelligenza di questi pregevoli documenti mi è sembrato opportuno di darne anche la versione letterale italiana, di cui sono debitore alla cortesia del conte di Vesme. Ho voluto oltrediciò che fossero riprodotti esattamente nella stampa tutti i segni di abbreviatura che hanno gli originali, affinchè della loro pubblicazione possano giovarsi anche coloro, cui piaccia di farne subietto di esame paleografico.
Io non mi so bene, e neppure voglio prendermi la cura di ricercare se la presente pubblicazione sia per tornare più profittevole ai fautori della sincerità delle carte arboreesi, ovvero a coloro che la combattono. Questi senza dubbio ne trarranno nuovo argomento per negare che accanto a quella lingua sarda, la quale nel corso di tre secoli non seppe spogliare la menoma parte della sua nativa durezza, come si vede anco da queste carte, potesse crescere e fiorire il volgare illustre, quasi germe trapiantato in terreno a lui più propizio. Che se vi pose radice, come si afferma, in qual maniera avvenne, domanderanno essi, che le dolci armonie della vergine musa italiana non allettassero i sardi, e non li prendesse vaghezza di ingentilire il loro proprio idioma? Come fu che questo venisse parlato e scritto da loro anche nel secolo successivo a quello avventuroso, che avrebbe veduto nascere Gherardo da Firenze, Aldobrando da Siena, Bruno de Thoro e gli altri poeti minori, nel modo istesso com’era parlato e scritto un secolo innanzi, e sempre se ne valessero nelle continue relazioni che ebbero co’ pisani anche quando presso di questi era già in uso il volgare italiano, e negli atti medesimi che i giudici di Sardegna facevano in Pisa? La nuova lingua, che aveva in sè virtù di divenire la comune lingua d’Italia, fu generata adunque alla Sardegna, come la Venere pagana, dalla schiuma del mare che la circonda, e come questa subitamente si dileguò senza lasciarvi nessuna traccia di se?
Dall’altra parte i difensori della autenticità delle carte d’Arborea non vorranno menar buono al Tobler di avere affermato che il più antico documento in lingua sarda di fede indubitata sono gli statuti di Sassari del 1316, e moveranno più fiera la guerra contro i canoni paleografici del Jaffé. Non è vera, essi diranno, la regola che egli pone in modo assoluto, e senza alcuna distinzione di luoghi nè di tempi, che ogni segno di abbreviatura debba avere costantemente una medesima significazione. Si vede infatti anche in queste due carte sarde indicata con segni diversi la omissione delle medesime lettere, come in oms e oms per omnes (Doc. I, lin 2, 12), in Ianellu, Fràcardu, sut, per Iannellu, Francardu, sunt (Doc. I, lin. 14; II, lin. 27) ec, e i medesimi segni essere usati ad indicare la omissione di lettere diverse, come in am, homs, oms, fre, Fracardu, per amen, homines, omnes, frade, Francardu (Doc. I, lin. 1, 9, 11, 12, 13, 14), in Dodimūdu, scū, Xpu, hoīs, spu, per Dodimundum, sanctu, Christu, hominis, spiritu (Doc. I, lin. 15; II, lin. 4,5, 20, 32), in arm̃tariu, sũt, devert̃e, scõs, per armentariu; sunt, devertere, sanctos (Doc. II, lin. 14, 27, 31, 34), in apl̃os, evāgl̃istas, p̠ph̃as, per apostulos, evangelistas, prophetas (Doc. II, lin. 33), ec. Osserveranno che nella forma de’ segni di abbreviatura non si può fondare nessuna regola certa e costante per assegnare a ciascuno di essi un significato suo proprio, perchè essa varia secondo i luoghi ed i tempi diversi, vedendosi usati, ad esempio, ne’ diplomi imperiali del secolo XII i segni 8, s ad indicare comunemente quasi ogni omissione di lettere, come in psciverit, dno, scdm, fecint, obsvavabo, pdcm, tminu, epe, pcepto, ec, per presciverint, domino, secundum, fecerint, observabo, predictum, terminimi, episcopio, precepto2, mentre nelle carte de’ giudici di Sardegna del medesimo tempo e di tempo anteriore sono adoperati segni di abbreviatura di forma diversa da quella. E forse, senza guardare alla varia configurazione di questi, la quale potrebbe solamente porgere indizio della età delle carte antiche, vorranno ordinarli tutti in due classi, e chiamarli segni generali e particolari secondochè il loro significato è vario o determinato e immutabile. La qual distinzione avrebbe la sua ragione e il suo fondamento in questa regola generale, che mentre quasi tutti i segni di abbreviatura possono indicare omissioni diverse di lettere, alcuni di essi prendono un costante, certo ed invariabile significato, quando vanno accompagnati ad una lettera determinata; come avviene, ad esempio, del segno ı, che può sciogliersi in ihi, isi, ri, ui, ir, e che assume costantemente uno di questi suoi diversi valori secondochè sia sovrapposto alle lettere m, n, p, q, v.
Ma qualunque abbia ad essere la fortuna che toccherà a queste carte nella contesa intorno alla sincerità di quello d’Arborea, sono certo che esse non torneranno all’atto inutili alla storia di Pisa e della Sardegna; e questa è la principale ragione che mi ha mosso a pubblicarle.
- Pisa, 31 marzo 1871.
L. T.
† In nomine Dñi, am~. &go iudice Mariano de Lacon fazo ista carta ad onore de om~s homines de Pisas ᵱ xu toloneu ci mi pecterunt, & &go donolislu ᵱ cali sso &go amicu caru, e itsos a mimi. Ci nullu I~peratore c’ il vaet potestare istū locu de non n’apat comiatu de levarelis toloneū in placitu, de non occidere pisanu ingratis, & ccausa ipsoro ci lis aem levare ingratis, de faccerlis iustitia, inperatore cince aet exere intu locu. & ccando mi petterum su toloneu ligatarios ci mi mandarū hom~s ammicos meos de Pisas, fuit Falceri & Azulinu & Manfridi, &d ego fecindelis carta pro honore de xu pisccopū Gelardu, & de Ocu Biscomte, & de om~s consolos de Pisas, & ffecila pro honore de om~s ammicos meos de Pisas, Guidu de Vabilonia, & Lleo su fre~~, Repaldinu, & Ianellu, & Valduinu, & Bernardu de Conizo, Frãcardu, & Dodimūdū, & Brunii, & Rranuzu, & Vernardu de Garulictu, e Ttornulu: ᵱ siant in onore mea, &d in aiutoriu de xu locū meu. Custu placitu lis feci ᵱ sacramentu &go, & domnicellu Petru de Serra, & Gostantine de Azzem, et Voso Vecce su.... & Dorgotori de Ussam, & Nniscoli su fre~~.... Niscoli de Zor..., Mariane de Ussam, Pet...
In nome del Signore, amen. Io giudice Mariano di Lacon
faccio questa carta ad onore di tutti uomini di Pisa per il
dazio che mi domandarono, e io donoglielo in quanto sono
io amico caro, ed essi a me. Che nessuno imperante che vada podestare questo luogo non n’abbia facoltà di levar loro
il dazio contro piacimento, di non uccidere pisano contro
giustizia, e cose loro che loro leveremo contro giustizia, di
l’are loro giustizia imperante chiunque abbia essere nel luogo.
E quando mi domandarono il dazio legati che mi mandarono uomini amici miei di Pisa, fu Falceri, e Azzolino, e Manfredo , ed io feci loro carta per onore del vescovo Gerardo, e di Oco Visconte, e di tutti consoli di Pisa, e fecilo per onore di tutti amici miei di Pisa, Guido di Babilonia, e Leo il fratello, Repardino, e Gerardo, e Giannnello, e Balduino, e Bernardo di Conizo, e Francardo, e Dodimondo, e Bruno, e Ranuzzo, e Bernardo di Garolitto, e Tomolo; affinchè siano in onore mio, ed in aiuto dello luogo mio. Questo placito loro feci per sacramento io, e donnicello Pietro di Serra, e Costantino di Azzem, e Vosone Vecce il.... e Torcotorio di Ussam, e Niscoli il fratello... . Niscoli di Zor[i], Mariano di Ussam, Piet....
II.
1212, maggio 10, ind. XIV.
(Diplomatico, R. Acquisto Coletti).
In nomine Patris et Filii et SpΩs ScΩi, amΩ. Ego Iudigi Salusi
de Lacon cun fìlia mia Benedicta ᵱ bolintate de donnu Deu
potestando parti de Kalaris, fazzulla custa carta pro beni ki
fazzu a onori de Deu, et de Scū Iorgi, et de Scū Gorgonii,
et de Scū Vitu martirus de Xpū, et pro remissioni de sus
peccadus mius, et de parentis mius, et pro pregu ki m’indi
fegit, candu andei ad Pisas, donnu Albertu su abbadi de
Gorgona et de Scū Vitu, cun issus fradis suus. Assolbulla
sa domu de Scū Iorgi de Sabollu, ki si clabat ad pusti su
monasteriu de Gorgona et de Scū Vitu, et assolbu sus serbus
, et is ankillas de cussa domu, et totu sus hominis ki ant istari ad sirbitiu de cussa domu; ki non denti aligandu dadu,
ni issa domu, ni is serbus, ni is sirbidoris suus; ni ad Iuigi,
ni ad curadori, ni ad maiori de scolca, ni ad arm~tariu, et ni ad
ᵱuna ᵱsoni ki siat, nin p_ nomini de Iudigi, nin ᵱ nomini alienu;
far ci siatsi libera et assolta, et icussa domu de Scū Iorgi de
Sebollu, et totu sus hominis suus de non dari aligandu ᵱunu
dadu, nin pro ᵱsonis, nin pro causa issoru ᵱuna. Et icustu
beni ki apu fatu ad sa domu de Scū Iorgi de Sebollu, et ad
totu sus hoīs suus, de nollis lebari aligandu dadu, non apat
balia nin potestadi ᵱunu Iuigi, et nin ᵱmna ᵱsoni ki ad bēni
pust mei, a isfairillu, ni ad minimarillu aligandu, cantu adi
durari su segulu. Et icustu beni fegi sendu in Pisas, in sa
clesia de Scū Pedru ad vincula, ante stimōius Nigola nodaiu,
et Barlecta de Luca filiu de Brunectu, Gualteroto filiu de Gilardinu
Castagnaccii, et Bandinu filiu de Bonaiūcta de Philipu
, et Brunectu filiu de Villanu Follaiu. Et suñt destimoni’,
Pedru Darcedi, Barisoni Passagi, et Comita de Serra de
Frailis. Et est facta custa carta anno Dni M. CC. XII, indictiōe
XIIII, sexto id’ madii, habendumilla sa curadoria de
Cāpidanu ad marnu mia ᵱ logu Salbadori. Et ki ll’aet deverte
apat anathama daba Patre, et Filio, et Sc~o Spū, daba XII
Apl~os, et IIIIor Evāgl~istas, daba XVI ᵱcph~as et XXIIII Seniores
, daba CCCXVIII Scõs Patres, et sortē habeat cum
Iuda traditore in inferno īferiori. Amen et fiat.
In nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo, amen. Io Giudice Salusio di Lacon con la figliuola mia Benedetta , per volontà di Domine Dio avendo in potere la parte di Cagliari, facciola questa carta per bene che faccio a onore di Dio, e di Santo Giorgio, e di Santo Gorgonio, e di Santo Vito, martiri di Cristo, e per remissione dei peccati miei e dei parenti miei, e per preghiera che me ne fece, quando andai a Pisa, donno Alberto l’abate di Gorgona e di San Vito, con i frati suoi. Assòlvola la casa di San Giorgio di Sebollu, che si inchioda (è annessa) di dietro il monastero di Gorgona e di San Vito, e assolvo i servi e ancelle di questa casa, e tutti gli uomini che staranno a servizio di questa casa, che non diano mai data, né la casa, né i servi, nè i servitori suoi, nè a giudice, nè a curatore, nè a maggiore di scolca, nè ad armentario, nè a veruna persona elio sia, nè per nome di giudice, nè per nome altrui, far clic siasi Libera od assolta, e questa casa di San Giorgio di Sebollo e tutti gli uomini suoi, di non dare mai veruna data, nè por persone, nè per causa di essi veruna, li questo bene che ho fatto alla casa di San Giorgio di Sebollo, e a tutti gli uomini suoi, di non loro levare mai data, non abbia balla, nè potestà vermi giudice, e nè veruna persona che verrà dopo me, a disfarlo, nè a menomarlo mai, quanto durerà il secolo. E questo bene feci essendo in Pisa, nella chiesa di San Pietro ad vincula, dinanzi [i] testimoni Nicola notaio, e Barletta di Lucca figliuolo di Brunetto, Guaiterotto figliuolo di Gilardino Castagnaccio, e Bandino figliuolo di Bonagiunta di Filippo, e Brunetto figliuolo di Villano Follaio. E sono testimoni Pietro Darcedi, Barasone Passagi, e Comita di Serra di Frailis. Ed è fatta questa carta l’anno del Signore M. CC. XII, indizione XII1I, dieci di maggio, avendomila la curatoria di Campidano a mano mia, per il salvatore del luogo. E chi la rovescerà abbia anatema dal Padre, e Figliuolo, e Santo Spirito, da’ XII Apostoli e IIII Evangelisti, da’ XVI Profeti e XXIII1 Seniori, da’ CCCXVIII Santi Padri, e sorte abbia con Giuda traditore nell’inferno inferiore. Amen e sia fatto.
Note
- ↑ Le carte d’Arborea e l’Accademia delle sciente di Berlino, noi periodico la Rivista europea, dicembre 1870.
- ↑ Diploma di Arrigo VI del primo marzo 1191, in Archivio di Stato di Pisa, Diplomatico, Atti pubblici.
- ↑ A questa carta, che forse ci conserva la più antica memoria de’ consoli pisani, manca il fine e la data. Ma essa è del tempo in cui fu vescovo di Pisa Gerardo, il quale morì, secondo alcuni, nel 1086, secondo altri nel 1089 (Mattei, Eccl. pis. hist. I. 172, 174).