con dolore, che se fu ragionevole il desiderio del Vesme che sopra quell’importante argomento fosse pronunziato un giudizio imparziale e autorevole, contuttochè mi pareva che gli italiani, i quali vanno invidiati per tanta ricchezza di monumenti storici e paleografici, dovessero volere e saper definire una questione di paleografia e di storia d’Italia senza l’aiuto degli stranieri. Se non che la sentenza proferita dai giudici di Berlino, che dichiarò false quelle carte, non è riuscita a dirimere la controversia, dappoichè non abbia ricevuto autorità di giudicato inappellabile dal comune consentimento delle parti contrarie. Il conte Vesme invero ha preso a combatterla con quella dottrina di cui è così largamente fornito; e i seguaci stessi di lei, quasi non fossero pienamente sicuri che sia irrevocabile, tuttodì si danno a sostenerla con nuovi argomenti. Peraltro non mancano ragioni per dubitare che da questa viva contesa non venga dato poi di raccogliere frutto proporzionato a quel tanto d’ingegno, di studio e di tempo che vi si adoperano; e il dubbio si fa maggiore se si consideri come gli avversari di quelle povere carte non sempre siano concordi tra loro, e come anzi talvolta gli uni si oppongano agli argomenti e ai giudizi recati innanzi dagli altri: di che ha dato esempio recente monsignore Ernesto Liverani, il quale, mentre intima al Vesme che si arrenda ad una sua osservazione sopra una sola delle parole scritte nelle carte arboreesi, che basta a parer suo a dimostrarle evidentemente false ed opera di svergognata impostura, nega al Jaffè ed al Tobler il diritto di movere contro di esse l’accusa di falsità, e concede loro unicamente quello di dichiararle sospette1. A me sembra pertanto che si giungerebbe sicuramente a sbrogliare, come altri disse, questa arruffata matassa, e a conoscere il vero intorno al famoso
- ↑ Le carte d’Arborea e l’Accademia delle sciente di Berlino, noi periodico la Rivista europea, dicembre 1870.