<dc:title> L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia Volume secondo </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Miguel de Cervantes</dc:creator><dc:date>1615</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Don Chisciotte (Gamba-Ambrosoli) Vol.2.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Don_Chisciotte_della_Mancia_Vol._2/Capitolo_XIII&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20161029104539</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Don_Chisciotte_della_Mancia_Vol._2/Capitolo_XIII&oldid=-20161029104539
L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia Volume secondo - Capitolo XIII Miguel de CervantesBartolommeo GambaDon Chisciotte (Gamba-Ambrosoli) Vol.2.djvu
Seguita l’avventura del Cavaliere dal Bosco, e si descrive il giudizioso, nuovo e soave colloquio seguito fra i due scudieri.
S
tavansi appartati cavalieri e scudieri, questi raccontandosi i fatti loro, e quelli le loro amorose vicende. L’istoria ci dà prima il ragionamento seguito fra i servitori, e passa indi a quello dei padroni; e narra che, scostatisi alquanto, lo scudiere del cavaliere dal Bosco così disse a Sancio: — È pure una travagliata vita, signor mio, quella che noi passiamo vantando il bel titolo di scudieri dei cavalieri erranti! Ben si può dire con verità che noi mangiamo veramente il pane col sudore del nostro volto, ch’è una delle maledizioni fulminate da Dio contro i nostri primi padri. — Si può anche dire, soggiunse Sancio, che lo mangiamo col gelo dei nostri corpi; perchè chi è che patisca più caldo e più freddo dei miserabili scudieri della errante cavalleria? E manco male se almeno mangiassimo, perchè più tollerabili sono le disgrazie a corpo bene pasciuto; ma il peggio si è che passiamo talvolta uno e due giorni senza romper il digiuno, e dobbiamo contentarci di qualche boccone dell’aria che soffia. — Pazienza ancora per ciò, rispose quello dal Bosco, poichè possiamo sperare di esser compensati; mentre se non è sfortunato all’ultimo segno il cavaliere errante, al cui servizio lo scudiere si trova, avrà questi in guiderdone per lo meno il fortunato governo di qualche isola o di una contea di molta importanza. [p. 113modifica]— Io, replicò Sancio, ho protestato al mio padrone che mi contento del governo di un’isola; ed egli è tanto nobile e tanto prodigo che molte e molte volte me l’ha promessa. — Io, disse quello dal Bosco, mi chiamerei pago della mia servitù ottenendo un canonicato, e mel promise già il mio padrone. — Se il vostro padrone, soggiunse Sancio, è cavaliere alla ecclesiastica, egli potrà dar luogo a questa sorte di mercedi coi suoi buoni scudieri, ma il mio è unicamente laico, sebbene mi ricordo che certe savie persone lo consigliavano (a parer mio pessimamente) che cercasse di diventare arcivescovo; ma egli non ismontò dalla pretensione di esser imperadore: io tremai ch’egli non si volgesse agli affari di chiesa, non trovandomi al caso di assumere benefizi per questo mezzo; perchè voglio confessare a vossignoria che quantunque io sembri uomo di proposito, pure sarei una vera bestia per le cose ecclesiastiche. — In verità, disse quello dal Bosco, che vossignoria è in errore, mentre i governi isolani non sono tutti di buona data; alcuni se ne trovano rivoltosi, altri poveri, taluni malinconici, e finalmente anche il meglio istituito e ben conformato si trae dietro il pesante carico di pensieri e disturbi che si mette sulle spalle quel meschino cui un tal governo tocchi in sorte. Molto meglio sarebbe che noi, che professiamo questa maledetta servitù, ci ritirassimo a casa nostra, ed ivi ci occupassimo in più grati esercizi, come sarebbe la caccia e la pesca; mentre, e quale fia mai sì povero scudiere al mondo che non abbia nella sua stalla un ronzino, un paio di levrieri e una canna da pescare? e queste cose già sono sufficienti per occuparsi bene nel suo paese. — Veramente io ho tutte queste cose, eccettuato il ronzino, rispose Sancio, ma in sua vece ho un asino al mio comando che vale il doppio del cavallo del mio padrone: mala pasqua Dio mi dia se volessi barattarlo con lui se bene mi dessero in [p. 114modifica]aggiunta quattro staia di frumento; e non creda vossignoria ch’io esageri, perch’è di pelame leardo; e quanto ai levrieri, non ho paura che mi manchino, giacchè ve n’ha più del bisogno nel mio paese, e riesce molto più gustosa la caccia quando si fa a spese di altri. — Egli è infallibile, rispose quello dal Bosco, signor scudiere, ch’io ho proposto e determinato meco medesimo di abbandonare le scioccherie di questi nostri cavalieri, e di ritirarmi al mio paese per attendere alla educazione de’ miei figliuoletti, chè ne tengo tre che sono tre perle orientali. — Ed io ne ho due, disse Sancio, che possono presentarsi al papa in persona, e specialmente una ragazza che, se piace a Dio, farò contessa, a dispetto di sua madre. — E che età ha ella, disse quello dal Bosco, questa signorina che si alleva per contessa? — Quindici anni, due più due meno, rispose Sancio; ma è di statura alta come una lancia, di freschezza tale da non invidiare una mattina di aprile, ed ha una forza da facchino. — Queste sono qualità, replicò l’altro, che non solo possono farle meritare di essere contessa, ma anche di diventare ninfa del [p. 115modifica]bosco verde. — Prego Dio, soggiunse Sancio, che per tornare a vedere la mia famigliuola mi cavi di peccato mortale, ch’è tutt’uno come cavarmi da questo pericoloso offizio di scudiere nel quale sono incappato per la seconda volta, allettato e vinto da una borsa di cento scudi che ho trovata un giorno nel bel mezzo di Sierra Morena. Anche adesso il diavolo mi mette dinanzi gli occhi un’altra borsa piena di dobloni, chè mi pare ad ogni poco di poter trovarla, abbracciarla e portarla a casa mia: e allora darò denari a censo, avrò rendite e vivrò come un principe. Per quel poco di tempo che io vo spendendo in questi pensieri mi diventano facili e sopportabili i travagli che patisco con questo mentecatto del mio padrone che ha più del pazzo che del cavaliere. — Per questo, rispose quello dal Bosco, si suol dire che il soverchio rompe il coperchio; e giacchè si tratta di cavalieri pazzi credo che non vi sia alcuno più pazzo del mio; perchè è di quelli che dicono: le brighe e i fastidi degli altri ammazzano l’asino. Oh prima che un cavaliere che ha perduto il giudizio lo ricuperi vi vuol ben altro! — È forse innamorato? dimandò Sancio. — Sì, disse quello dal Bosco, di una certa Calsidea di Vandalia la più crudele, ma la più compita signora che possa darsi nel mondo; ma non zoppica solo dal piede della crudeltà; chè ci cova qualche altro imbroglio..... Basta, se ne vedranno gli effetti. — Non v’è strada sì piana che non abbia i suoi intoppi, rispose Sancio: io credeva di esser solo a servire un pazzo, or veggo che la pazzia ha più clientele che la discrezione; ma se è vero il detto che ai miseri è un sollievo l’avere dei compagni nelle miserie, io posso consolarmi con vossignoria che serve un padrone tanto balordo quanto è il mio. — Balordo, ma valoroso, rispose quello dal Bosco, e più poco di buono che sciocco e imprudente. — Oh il mio non è così, rispose Sancio; e posso assicurarvi che non ha [p. 116modifica]mente da cattivo; è un bestione di buona pasta, non fa male ad alcuno, fa del bene a tutti, non ha alcuna malizia, e un fanciullo gli darà ad intendere che sia notte a mezzogiorno; e per questa sua semplicità voglio a lui tanto bene quanto al mio caro leardo, nè ho coraggio di abbandonarlo comunque vada facendo ogni giorno spropositi da non perdonarsi. — Contuttociò, o fratello e signor mio, disse quel dal Bosco, se un cieco guida un altro cieco vanno a pericolo tutti e due di cadere nella fossa. Più savio partito mi pare quello di ritirarci a tempo, e di tornarcene agli oggetti veri del nostro amore; chè quelli che vanno in traccia di avventure non sempre le trovano buone„. Sancio sputava spesso, per quanto parea, un certo genere di scialiva attaccaticcia e alquanto secca; il che sentito e notato dal caritatevole boschereccio scudiere gli disse: — Sembrami, che per i tanti discorsi da noi tenuti fin qui ci si incollino le lingue al palato; ma io ci rimedierò con qualche cosa che porto all’arcione del mio cavallo: questi distaccano la scialiva, e sono molto opportuni„. Dette queste parole, si alzò, e lasciato Sancio solo per un momento, tornò poi subito recando seco una borraccia di vino ed un pasticcio lungo un mezzo braccio; nè questa è esagerazione [p. 117modifica]perch’era di un coniglio tanto grande che Sancio al vederlo credette che fosse qualche capretto o becco. Quando Sancio si vide dinanzi questa provvigione, disse: — E queste cose porta con sè vossignoria? — E che? si credeva, rispose l’altro, ch’io fossi qualche scudiere fallito? Io porto sulle groppe del mio cavallo una provvigione più grande di quella che trae seco un generale quando va alla guerra„. Mangiò Sancio senza farsi pregare, e mandò giù bocconi al buio grossi come nodi di pastoie. Disse poi: — Oh vossignoria sì ch’è scudiere fedele e legale, andante e restante, magnifico e grande come lo fa vedere il presente banchetto, che se non è comparso qua per arte d’incanto, almeno lo pare; e non è come son io, poveretto e disgraziato che non porto nelle mie bisacce se non un po’ di formaggio tanto duro, che si potrebbe con un tocco accoppare un gigante; e gli fanno compagnia quattro dozzine di carrube e altrettante di nocciuole, e tutto questo in forza della povertà del mio padrone, e dell’essersi egli cacciato in testa che l’ordine a cui appartiene (quello cioè della errante cavalleria) non abbia da mantenersi e sostentarsi se non con frutte secche e con erbe della campagna. — Per fede mia, fratello, replicò l’altro, ch’io non ho lo stomaco fatto per bagattelle o per pere salvatiche, o per le radichie dei monti. Restino colle loro opinioni e colle loro leggi cavalleresche i nostri padroni, e mangino come loro piace, che io intanto porto con me della carne fredda, e questa borraccia attaccata all’arcione della sella per tutto quello che potesse occorrere, e sono a lei sì devoto e amoroso che pochi intervalli trascorrono senza ch’io le dia mille baci e mille abbracci„. E nel dir questo pose la borraccia in mano a Sancio, il quale, alzandola bene all’aria, la portò alla bocca, e se ne stette guardando per un quarto d’ora le stelle. Terminato ch’ebbe di tracannare, lasciò cadere la testa da un lato, e mandando un gran sospiro disse: — O signore, mi dica per quanto ha di più caro, questo vino è egli di città reale? — Oh il bevitore sapiente! sclamò quello dal Bosco: in verità ch’è appunto tale, ed ha molti anni di anzianità. — E quale maraviglia è la vostra? disse Sancio: non saprò io dunque conoscere che vino sia? E non vi pare, signor scudiere, che io sia uomo da sapere distinguere i vini anche col solo annasarli? Ve ne saprei dire la patria, la stirpe, il sapore, la durata, e la volta che hanno da dare con tutte le circostanze annesse e connesse: nè c’è punto da stupirsi mentre io vanto dal lato di mio padre i due più solenni bevitori che da molti anni io qua contasse la Mancia; ed in prova di questo sentite un curioso caso ch’è loro accaduto. Fu dato da assaggiare ad amendue del vino di una botte per avere il loro parere snlla qualità e bontà, o difetti [p. 118modifica]di gusto e di odore. Uno lo pregustò appena colla punta della lingua, e l’altro lo annasò soltanto. Decise il primo che il vino sapeva di ferro; il secondo che sapeva di cordovano. Sosteneva il padrone che la botte era nuova e nettissima, e che quel tal vino non avea alcun acconcime da cui avesse potuto venirgli sapore o di ferro o di cordovano. Contuttociò i due gran beoni stettero forti nel loro proposto. Passò qualche tempo, si vendette il vino, e quando nettarono la botte trovarono nel fondo di essa una piccola chiave attaccata ad una coreggia di cordovano. Ora vegga vossignoria se chi procede da cotal razza può essere giudice competente in questa materia. — Ed è appunto per questo che io ripeto, soggiunse quello dal Bosco, che noi tralasciamo di andare cercando venture, e poichè abbiamo focacce non andiamo in cerca di stiacciate, e torniamcene alle nostre capanne. A buon conto io resterò al servigio del mio padrone fino a tanto che arrivi a Saragozza, e poi ognuno saprà quello che avrà a fare„.
Tanto in fine andarono ciarlando e bevendo i due buoni scudieri, che per necessità giunse il sonno a legare le loro lingue e a temperare la loro sete; chè lo smorzarla affatto sarebbe stato impossibile. Attaccatisi entrambi alla quasi vôta borraccia, con i bocconi mezzo masticati in bocca si addormentarono; e noi lasceremo per ora che riposino in pace por raccontare ciò che seguì tra il cavaliere dal Bosco e quello dalla Trista Figura.