Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XII

Capitolo XII

../Capitolo XI ../Capitolo XIII IncludiIntestazione 27 ottobre 2016 75% Da definire

Capitolo XI Capitolo XIII

[p. 105 modifica]


CAPITOLO XII.


Della strana avventura accaduta a Don Chisciotte col valoroso Cavaliere dagli Specchi.


LL
a notte che successe al giorno in cui avevano incontrata la Carretta della Morte don Chisciotte e il suo scudiere la passarono sotto alcuni alti e ombrosi alberi, dove per consiglio di Sancio don Chisciotte mangiò della provvigione che trovavasi nella credenza portata dall’asino. Durante la cena disse Sancio al suo padrone: — Sarei pure stato balordo se avessi scelto per mancia lo spoglio della prima ventura che fosse stata effettuata da vossignoria, piuttostochè la razza delle tre cavalle! oh è meglio uccelletto in mano che aquila al volo. — Contuttociò, disse don Chisciotte, se tu, o Sancio, mi avessi lasciato combattere com’era mia volontà, ti sarebbe toccato in ispoglio almeno almeno la corona d’oro dell’imperatrice, e le dipinte ali di Cupido, ch’io gliele avrei strappate di forza, e te le avrei consegnate. — Le corone, disse Sancio, degl’imperadori di teatro non furono mai di oro fino, ma di orpello o di stagno. — Ciò è vero, replicò [p. 106 modifica]don Chisciotte, perchè sarebbe cosa malfatta che gli ornamenti teatrali fossero fini, ed anzi va bene che sieno finti e apparenti come la stessa commedia. Io poi bramo, o Sancio, che tu sia amico della commedia tenendola in grazia tua, e così pure quelli che la rappresentano, perchè servono tutti di giovamento alla repubblica. Costoro ci pongono ad ogni tratto dinanzi agli occhi uno specchio in cui veggonsi al vivo le azioni dell’umana vita, e non avvi paragone più atto a rappresentare quello che siamo, o che dovremmo essere, quanto la commedia e i commedianti. Nè ti opporre, o amico Sanciò, ma dimmi: non hai tu veduto rappresentar qualche commedia in cui s’introducono re, imperadori, pontefici, cavalieri, dame ed altri differenti personaggi, uno dei quali fa lo smargiasso, un altro l’imbrogliatore, questi il mercadante, quegli il soldato, un altro il semplice contegnoso, quell’altro l’innamorato morto; e poi, terminata la commedia e spogliati gli abiti, tutti i recitanti restano eguali? — Sì, signore, ne ho veduti molto bene, disse Sancio. — Ora sappi, disse don Chisciotte, che lo stesso avviene nella commedia e nel traffico di questo mondo; in cui taluno fa da imperadore, tal altro da papa e da mille altre comparse che possono essere nella commedia introdotte; ma giungendo al fine, ch’è quando termina la vita, la morte toglie a ciascuno l’abito che lo rendeva diverso dagli altri, e tutti restano eguali nella sepoltura. — Bel paragone! sclamò Sancio; ma egli non è poi tanto nuovo ch’io non [p. 107 modifica]l’abbia sentito mille e mille volte, come anche quello del giuoco degli scacchi, che mentre dura la partita ogni perno ha il suo offizio, ma terminata che sia, tutti si mescolano, si uniscono, si mutano e si cacciano in una borsa; ch’è lo stesso come la comparazione della vita che termina nella sepoltura. — Tu vai ogni giorno, o Sancio, disse don Chisciotte, diventando meno semplice e più giudizioso. — Batti e ribatti, rispose Sancio, ha da restarmi inchiodata bene in testa un poco della sapienza di vossignoria, poichè anche i terreni che sono sterili e senza umore nutritivo, a forza di mettervi buon letame, e di coltivarli, vengono a produrre buone frutta; e voglio inferire da questo che il conversare colla signoria vostra è stato il letame che ingrassò lo sterile terreno dell’infecondo mio ingegno; e la sollevazione del mio spirito la ripeto dal tempo in cui sono al suo servigio e converso con lei; e per tutte queste cose spero che un giorno darò frutta degne di benedizione, e tali che punto non isconvengano nè sdrucciolino fuori dalla strada delle buone creanze che vossignoria ha ora aperta al mio intelletto„. Si mise a ridere don Chisciotte delle studiate espressioni di Sancio, e gli sembrava anche vero ciò che dicea de’ suoi progressi, perchè parlava di tanto in tanto a modo che lo faceva restare maravigliato, quantunque non si possa dissimulare che il più delle volte co’ suoi discorsi di opposizione o alla cortigianesca precipitasse dal colmo della sua semplicità nel profondo della sua ignoranza. Quello in che si mostrava più elegante e memorativo era una profusione di proverbii; cadessero o no in acconcio al soggetto di cui trattavasi, come si andrà osservando nel corso di questa istoria.

In tali ed altri ragionamenti passarono gran parte della notte. Finalmente s’invogliò Sancio di lasciarsi cadere le cateratte sugli occhi (come soleva dir egli quando volea dormire); e però, levata all’asino la bardella, lo lasciò in pienissima libertà di andarsene al pascolo per lo prato. Non tolse la sella a Ronzinante per essere espresso comando del suo padrone che nel tempo in cui battessero la campagna, o dormissero allo scoperto, non lo sfornisse mai: vecchia costumanza stabilita e osservata dai cavalieri erranti. Levare la briglia e attaccarla all’arcione della sella, pazienza! ma togliere la sella al cavallo? guai! Così fece Sancio, e la libertà dell’asino potè essere comune a Ronzinante, la cui amicizia per l’asino fu sì unica e sì stretta che la fama ne corre per tradizione da padre a figliuolo; e l’autore di questa veridica istoria ne fece capitoli a parte, che non ha inseriti soltanto per voler essere geloso custode della decenza e del decoro dovuto a narrazioni sì eroiche. Ben è il vero che alcuna volta si dimentica di tale suo proposito, e scrive che [p. 108 modifica]subito che le due bestie potevano avvicinarsi andavano grattandosi l’una coll’altra, e che quando eran molto stracche, Ronzinante cacciava il suo collo a posare su quello del leardo per modo che ne riusciva un mezzo braccio dall’altra parte, e fissando ambedue gli occhi a terra stavasene a quel modo per tre giorni, o almeno fino a tanto che la fame non li spingeva a cercarsi altrove alimento. Soggiungo una cosa ancora e non più, ed è che l’autore ha lasciato scritto che nell’amicizia erano queste bestie da compararsi a Niso ed Eurialo, a Pilade ed Oreste; e se ciò è vero, resta luogo ad osservare con istupore quanto stabile dovette essere la colleganza dei due pacifici animali, a confusione degli uomini che tanto male si conducono gli uni con gli altri. Non v’è amico per l’amico, e le canne si cambiano in lance. Nè sembri a taluno che l’autore abbia deviato dal diritto sentiero paragonando l’amicizia di quelle due bestie con l’amicizia degli uomini; perchè gli uomini hanno appreso dalle bestie molti e molto importanti insegnamenti; come sarebbe a dire dalle cicogne il cristere, dai cani la gratitudine, dalle grue la vigilanza, dalle formiche la provvidenza, dagli elefanti l’onestà, e la lealtà dal cavallo.

Finalmente Sancio si addormentò sotto un sughero, e don Chisciotte se ne stette sonniferando disotto d’un’altissima quercia. Breve intervallo di tempo era scorso quando don Chisciotte fu desto da un rumore che udì dietro a sè, e levandosi impaurito e postosi ad ascoltare ed a vedere di dove procedesse, scoprì che erano due uomini a cavallo, uno dei quali abbandonando la sella, diceva all’altro: — Smonta, amico, e leva il freno ai cavalli, chè, a parer mio, qui trovasi abbondevolmente dell’erba pel loro pascolo, e qui sono la solitudine ed il silenzio che abbisognano agli amorosi miei pensamenti„. Il proferir queste parole ed il distendersi sulla terra fu tutto uno; ma nell’atto che si coricava, le armi che aveva indosso fecero rumore: dal che don Chisciotte argomentò che dovess’essere un qualche cavaliere errante.

Accostatosi a Sancio che dormiva, lo riscosse, e con non poca fatica lo svegliò; poi a bassa voce gli disse: — Fratello Sancio, abbiamo qui una ventura. — Dio ce la mandi buona! rispose Sancio. E dove sta, signor mio, la signoria di questa signora ventura? — Dove? mi domandi, replicò don Chisciotte. Volgiti, guarda e vedrai quivi prosteso un cavaliere errante, ch’io penso non debba essere soverchiamente allegro, poichè lasciatosi cadere giù di cavallo si distese per terra con non dubbii segni di animo irato; e nel cadere romoreggiarono le sue armi. — E in che trova vossignoria, disse Sancio, che questa sia un’avventura? — Non voglio dire, don Chisciotte [p. 109 modifica]rispose, che sia del tutto una ventura, ma principio di essa, chè così le avventure hanno principio. Ma stattene attento: a quanto pare, egli va accordando un liuto o una viola, ed al tossire e allo spurgarsi che fa, indovino ch’egli si apparecchia a cantare un poco. — In fede mia ch’è vero, rispose Sancio; oh sarà per certo un cavaliere innamorato. — Non avvi alcuno degli erranti che non lo sia, soggiunse don Chisciotte, e stiamolo a sentire, chè da questo filo scopriremo il gomitolo dei suoi pensieri: la lingua parla per l’abbondanza del cuore„.

Voleva Sancio replicare al padrone, quando la voce del cavaliere dal Bosco, che non era nè molto cattiva nè molto buona, glielo impedì, e standosene tutti e due in attenzione udirono che il suo canto diceva presso a poco così:

“Datemi, o mia signora, una via da seguire sempre il vostro volere; ed io conformerò a quello il voler mio per modo, che mai non me ne allontanerò pur d’un punto.

“Se v’è a grado che tacendo de’ miei martirii io muoia, e voi abbiatemi già fin d’ora per morto; o se volete ch’io ne parli di un modo inusato, farò che Amore stesso pigli a parlarne per me.

“Io, a prova de’ contrari, son fatto di molle cera e di duro diamante, e accomodo l’animo mio alle leggi d’Amore. [p. 110 modifica]

“Molle qual è o forte, io vi offro il mio cuore: voi tagliatelo od imprimetevi quello che più vi piace, chi io giuro di custodirlo eternamente„.

Con un ahi tratto, per quanto sembrava, dall’intimo del cuore, diè fine al suo canto il cavaliere dal Bosco, e di lì a poco con dogliosa e compassionevole voce proruppe: “Oh la più bella e la più ingrata donna dell’orbe! come sarà egli possibile, serenissima Casildea di Vandalia, che ti piaccia di vedere consunto e sfinito in continue pellegrinazioni ed in aspri e crudeli travagli questo tuo schiavo cavaliere? Non basta a te ch’egli abbia costretto a dichiararti per la più bella donna del mondo i cavalieri tutti della Navarra, tutti quei di Leone, tutti i Tartesii, i Castigliani tutti, e finalmente tutti i cavalieri della Mancia? — Oh questo poi no, disse don Chisciotte a tal punto: io sono cavaliere della Mancia, e mai non feci tal confessione, nè posso nè devo farla a pregiudizio della bellezza della mia dama. Tu vedi, o Sancio, che quel cavaliere delira: ma ascoltiamo, che forse si spiegherà un poco più. — Sentiamolo pure, rispose Sancio, ma egli ha ciera di querelarsi per un mese a di lungo„. Così non passò la cosa, perchè avvedutosi il cavaliere dal Bosco che qualcuno stava favellando vicino a lui, senza più continuar nel suo lamento, si alzò, e con sonora e cortese voce, disse: — Chi è là? che gente siete? siete fra i contenti o fra i miseri? — Fra gl’infelici, rispose don Chisciotte. — Dunque venite a me, soggiunse quello dal Bosco, e in me troverete l’affanno e la tribolazione stessa in persona„. Udendosi don Chisciotte rispondere sì teneramente e con sì alta cortesia, si avvicinò a lui, e Sancio ancora. Il dolente cavaliere prese don Chisciotte per un braccio dicendogli: — Sedete qua, signor cavaliere, chè per conoscervi tale e per accorgermi che professate la errante cavalleria, bastami avervi ritrovato in questo luogo dove la solitudine e la serenità sono e compagni e piume naturali e veri soggiorni dei cavalieri erranti„. Cui don Chisciotte: — Cavaliere son io, e della professione che dite, e tuttochè abbiano sede lor propria nell’anima mia le afflizioni, le sciagure e gli affanni, non per questo mi rifiuto di sentire compassione per le sventure altrui. Dal tenore del vostro canto, che ho inteso, sono convinto che le vostre sono afflizioni innamorate: voglio dire che nascono dall’amore che vi accende per la bella ingrata che ricordate nei vostri sospiri„.

Stando in questo colloquio trovavansi già seduti sul nudo terreno in santa pace e in amichevole compagnia, come se allo spuntare dell’alba non avessero poi a maltrattarsi a vicenda. — Signor cavaliere, domandò a don Chisciotte quello dal Bosco, sareste voi [p. 111 modifica]per avventura innamorato? — Lo sono per fatalità mia, rispose don Chisciotte, benchè i danni che ci derivano dai ben collocati affetti nostri debbano più propriamente chiamarsi favori che danni. — Questo è pur troppo vero, replicò quello dal Bosco, quando però non ci ottenebrassero alcuna volta la ragione e l’intelletto quegli sdegni che col moltiplicarsi vestono le sembianze della vendetta. — Giammai, rispose don Chisciotte, fui io sdegnato contro la mia signora. — Oh no certamente, soggiunse Sancio che gli era accanto, perchè la mia padrona è simile ad una piacevole asinella, e più morbida di un pane di burro. — È costui il vostro scudiere? domandò quello dal Bosco. — Per lo appunto, rispose don Chisciotte. — Non mi è mai più accaduto, replicò quello dal Bosco, di udire che lo scudiere abbia ardito di frammettersi nei ragionamenti del suo signore; ed il mio, che pur è qui grande e grosso, non osa mai di aprire bocca quando io favello. — Oh bella! disse Sancio; oh gran novità! ho parlato, posso parlare e non parlare davanti ad un altro tanto quanto...... tanto più la puzza quanto più......„ Lo scudiere del cavaliere dal Bosco prese allora Sancio per un braccio, e gli disse: — Andiamo, amico, noi altri due soli in un appartato luogo dove potremo discorrercela insieme scudierilmente, e lasciamo questi nostri padroni che si discervellino colle istorie dei loro amori, le quali scommetterei che non finiranno sino a dimani. — Andiamo alla buon’ora, disse Sancio, e racconterò a vossignoria chi sono io, e voi deciderete se io sono uomo da essere così posto in un fascio cogli scudieri ciarloni„. Si ritirarono amendue, e passo tra loro un ragionamento che riuscì tanto saporito quanto serio è stato quello dei loro padroni.