Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XXXII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXII.
Trattasi di ciò che accadde nella osteria a don Chisciotte ed ai suoi compagni.
Non erasi egli appena addormentato che l’ostessa si accostò al barbiere, e presolo per la barba, gli disse: — Per la vita mia che voi non metterete più a profitto la mia coda per farvi la barba, e me la dovrete subito restituire„. Il barbiere non gliela volea rendere benchè ella la tirasse a sè: ma il curato gli disse che poteva dargliela, giacchè non vi era più bisogno di quella finzione, potendo egli lasciarsi vedere alla scoperta da don Chisciotte, col dirgli che quando fu spogliato dai ladri galeotti era venuto a rifuggirsi in quella osteria; e se domandasse dello scudiere della principessa, gli rispondesse che l’aveva preceduta per avvisare i suoi sudditi che essa era in cammino alla loro volta, accompagnata dal comune liberatore. Allora il barbiere diede volentieri la coda all’ostessa, e gli altri restituirono quanto ella aveva loro prestato per conseguire la liberazione di don Chisciotte.
Tutta la gente dell’osteria fece le più alte meraviglie sì della bellezza di Dorotea, come della leggiadra figura del pastore Cardenio. Il curato ordinò che si apprestasse quanto avessero per cibarsi, e l’oste colla speranza di miglior paga allestì un conveniente desinare. Dormiva don Chisciotte frattanto, e si avvisarono di non isvegliarlo perchè sarebbegli per allora più giovato il dormire che il mangiare. Sul finire del pranzo, essendo presenti l’oste, l’ostessa, sua figliuola, Maritorna e quanti vi erano in quell’osteria, ragionarono intorno alle pazzie di don Chisciotte ed al misero stato in cui lo avevano ritrovato. Raccontò l’ostessa ciò che gli era avvenuto col vetturale, poi dando un’occhiata se a sorte eravi Sancio, e non lo vedendo, narrò per intiero l’istoria dello sbalzamento per aria colla coperta, di che risero tutti moltissimo. Avendo poi detto il curato che i libri di cavalleria letti da don Chisciotte gli avevano guasto il cervello, soggiunse l’oste: — Non so come possa essere questo, perchè in verità non evvi miglior lettura al mondo, ed io qui ne tengo due o tre con altre istorie che hanno data veramente la vita non pur a me solo ma ben anche a molti altri. Nei giorni di festa e alla stagione delle messi si raccolgono sul mezzogiorno molti segatori, fra i quali ve ne ha sempre qualcuno che sa leggere, e che ne prende uno, e noi gli facciamo cerchio in più di trenta, e ne stiamo ascoltando con gran piacere la lettura mandando al diavolo la malinconia. Posso dire di me, che quando sento raccontare i terribili e furiosi colpi tirati da quei cavalieri, mi viene la frega di fare altrettanto, e starei giorno e notte sempre ad udirli. — Ed io nè più nè manco, disse l’ostessa, chè non godo un’ora di quiete se non allora che voi ve ne state ascoltando queste letture, le quali vi tengono tanto assorto che vi dimenticate di borbottare. — Questo è vero, soggiunse Maritorna; e in fede mia che io ci ho il più gran gusto a sentire, per esempio, che un cavaliere e una dama riposano sotto un alloro. — E a voi che ne sembra, bella giovane? disse il curato, rivolgendosi alla figlia dell’oste. — Nol so, o signore, rispos’ella, in coscienza mia: io pure li sento leggere, e in verità ad onta che non li intenda ne provo diletto: per altro non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono tanto a mio padre, ma m’interessano i lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore, e mi commuovono fino a farmi piangere di compassione. — Di maniera che, buona giovine, disse Dorotea, se piangessero per cagion vostra, voi non indugiereste ad apprestar loro il rimedio? — Non so quello che farei, rispose la ragazza, e posso dire soltanto che tra quelle signore ve ne sono alcune tanto crudeli che meritano dai cavalieri il nome di tigri, di leonesse ed altri siffatti. Dio buono! non so come possa darsi gente così spietata e di sì poca coscienza, che per non voler consolare un uomo di onore lo lascino morire o diventar matto, ed io non arriverò mai a capire perchè facciano tanto le schizzinose: se le proposte dei cavalieri sono oneste si facciano con essi spose, chè questo debb’essere l’unico loro scopo. — Taci, disse l’ostessa, chè tu ti mostri un po’ troppo infarinata di tali faccende, e non si conviene alle donzelle saperne e parlarne tanto. — Non ho creduto, soggiunse la giovane, potermi dispensare dal rispondere, poichè fui interrogata. — Orsù, signor oste, disse il curato, portatemi questi libri, che bramo vederli. — Oh! ben volentieri„, rispos’egli; ed entrando nella sua stanza cavò fuori una vecchia valigia chiusa con una catenuzza, ed aprendola vi trovò tre libri grandi ed alquanti fogli manoscritti di bel carattere, e li portò tutti al curato. Il primo libro apertosi era Don Cirongilio di Tracia, l’altro Felice Marte d’Ircania, ed il terzo La Storia del gran capitano Gonzalo Fernandez di Cordova con la Vita di Diego Garcia di Parades. Quando il curato ebbe letto il titolo dei due primi, si volse al barbiere, e disse: — Qui ci vorrebbero la nipote e la serva del nostro amico. — Non importa, rispose il barbiere; chè so pur io gittarli in corte o metterli sotto il camino dove ci sarà un buon fuoco. — E che? vorrebbe forse vostra signoria bruciare i miei libri? disse l’oste. — Io brucerei, disse il curato, questi due solamente, cioè quello del don Cirongilio e quello di Felice Marte. — Ma, replicò l’oste, sono forse questi libri eretici o flemmatici, che li volete abbruciare? — Scismatici, dovete dire, soggiunse il barbiere, e non flemmatici. — Questo io voleva dire, replicò l’oste: ma se pur ne vuole vossignoria bruciare qualcuno, cada la scelta su quello del gran capitano e su quello di Diego Garzia, perchè gli altri mi sono tanto cari che lascerei bruciare un figliuolo anzichè permettere ch’altri desse alle fiamme alcuno di essi. — Fratello, disse il curato, questi due libri sono bugiardi e pieni zeppi di spropositi e di chimere, laddove quello del Gran capitano è storia vera, e racconta i fatti di Gonzalo Fernandez di Cordova che meritò per le sue molte e grandi imprese di essere chiamato da tutti il gran Capitano, soprannome celebre, luminoso e conveniente a lui solo. Quanto poi a Diego Garzia di Paredes egli fu un cavaliere dei principali della città di Trusciglio nella Estremadura, guerriero valorosissimo e dotato dalla natura di tanta forza che fermava con un solo dito la ruota di un mulino nella sua maggior furia; e postosi con uno spadone in mano all’ingresso di un ponte impedì ad un esercito innumerabile l’andare innanzi, e fece in oltre tali altre prodezze, che se in vece di scriverle egli stesso colla modestia di chi parla di sè, altri le avesse scritte senza verun riguardo e da uomo disappassionato, avrebbero oscurato quelle degli Ettori, degli Achilli e dei Rolandi. — Oh ella è pur bella, disse l’oste, e voi fate le maraviglie perchè fu ritenuta una macina da mulino col dito? Legga, per Bacco, la signoria vostra ciò che ho letto io medesimo di Felice Marte d’Ircania, che con un solo manrovescio tagliò per mezzo cinque giganti, come se fossero stati di ricotta, o come tanti di quei fratini che fanno i ragazzi di baccelli o di fave fresche. Un’altra volta assalì un grandissimo e poderosissimo esercito, composto di un milione e secentomila soldati, armati tutti da capo a piedi, e li sbaragliò, e li fece fuggire tutti come tante mandre di pecore. E dove lasciamo noi il buon don Cirongilio di Tracia? Fu sì animoso e valente che navigando, come leggesi nel libro della sua istoria, per un fiume, ed essendo uscito dall’acqua un drago di fuoco, nol vide egli appena che gli saltò in groppa, e gli strinse con ambedue le mani la gola per modo che sentendosi il drago in procinto di essere strozzato, non trovò altro scampo che piombare al fondo del fiume strascinando seco il cavaliere che non per questo si volle staccare da lui: e quando poi furono abbasso egli si trovò in un palazzo e in un giardino sì vago ch’era maravigliosa cosa a vederli; ed ivi il drago si trasformò in un vecchio decrepito, da cui tali e tante cose gli furono dette che non si potrebbere sentire di più. Deh non si opponga vossignoria, chè se ella leggesse queste imprese impazzirebbe per lo piacere; e venga il canchero al gran Capitano e al signor don Diego Garzia„.
Dorotea ciò udendo, disse a Cardenio con voce sommessa: — Manca poco al nostr’oste di fare la seconda parte di don Chisciotte. — A me pure sembra così, rispose Cardenio; perchè agl’indizii che ci porge, egli tiene per indubitato che quanto raccontano quei suoi libri, sia stato nè più nè meno come vi è scritto, nè tutti i predicatori del mondo gli farebbero credere il contrario. — Badate bene, fratel mio, tornò a dire il curato, che non vi furono al mondo giammai nè Felice Marte d’Ircania, nè don Cirongilio di Tracia, nè gli altri cavalieri dei quali trattano i libri di cavalleria, tutti composti e immaginati da oziosi cervelli, intenti solo, come voi stesso diceste, a dare passatempo agli sfaccendati, quali sono i vostri segatori quando li leggono. Io vi giuro con asseveranza che mai non furono al mondo siffatti cavalieri, nè si diedero mai cotali prodezze e tali spropositi. — A me non si vendono lucciole per lanterne, rispose l’oste, come se io non sapessi quanti diti ha una mano, o dove mi duole la scarpa: e non si creda la signoria vostra d’ingannarmi perchè, viva il cielo, so distinguere il nero dal bianco. È ben singolare ch’ella voglia persuadermi che il contenuto di questi buoni libri sia un impasto di menzogne, quando sono belli e stampati con licenza dei signori del Consiglio reale; come se quelle fossero persone da permettere che si stampassero tante battaglie, tanti incantesimi e tante bugie da far perdere il giudizio. — Io già vi ho detto, replicò il curato, che ciò si fa ad oggetto di dare trattenimento ai nostri oziosi pensieri, e nello stesso modo che si permettono nelle ben regolate repubbliche i giuochi degli scacchi, di pallacorda e del trucco per passatempo di quelli che non vogliono, non debbono, o non possono lavorare: e per questa stessa ragione si permette la stampa di tali libri, stimando, com’è di verità, che non possa darsi uomo di sì crassa ignoranza che tenga per veritiera alcuna delle istorie che vi si leggono. Se mi fosse poi lecito e mel concedesse chi adesso mi ascolta, io direi ciò che dovrebbero contenere i libri di cavalleria per essere buoni e per riescire di piacere e di profitto ad un tempo: spero però che potrò una qualche volta conferire con chi trovasi in caso di rimediarvi; e frattanto credete, signor oste, a ciò che vi ho detto; prendetevi i vostri libri, pensateci voi per ciò che si appartiene alle verità od alle bugie che contengono che buon pro vi faccia; e voglia Dio che non camminiate sul piede su cui cammina il vostro ospite don Chisciotte. — Oh questo poi no, rispose l’oste, ch’io non sarò mai così pazzo da farmi cavaliere errante, conoscendo assai chiaramente che non si usa oggidì ciò che si usava nei vecchi tempi, nei quali si dice che andavano vagando pel mondo questi erranti cavalieri„.
Sancio, ch’erasi trovato presente alla metà di questo discorso, restò molto confuso e pensoso sentendo che non erano in uso ai dì presenti i cavalieri erranti, e che i libri tutti di cavalleria erano solo una serie di balordaggini e di menzogne. Propose in cuor suo di attendere per vedere dove andava a parare il viaggio del suo padrone, perchè se non vedesse probabile la felicità ch’egli sperava, faceva disegno di abbandonarlo, e di tornarsene con sua moglie e i suoi figliuoli agli usati lavori.
L’oste andava già a riporre il valigiotto ed i libri; ma il curato gli disse: “Aspettate chè voglio vedere che cosa contengono questi fogli scritti con sì bel carattere„. L’oste li cavò fuori, e dandoli al curato, questi trovò ch’erano otto fogli manoscritti, con questo titolo: novella del curioso indiscreto. Scorse che n’ebbe un tratto, soggiunse: — Non mi dispiace il titolo di questa novella, e mi viene voglia di leggerla tutta„: al che l’oste rispose: — Può leggerla vostra riverenza, perchè le dico che essendo stata letta da altri forestieri, se ne trovarono contenti assai, e me l’hanno con grande istanza richiesta; ma non aderii alle loro domande, perchè una volta o l’altra potrebbe ritornare colui che dimenticò qui la valigia, ed è giusto che ogni cosa gli sia restituita: e benchè vi confessi che me ne dorrà assai, voglio nondimeno fargliene la restituzione, perchè quantunque oste sono però buon cristiano. — Avete ogni ragione, amico mio, disse il curato: ma ad onta di tutto ciò se la novella mi piace mi dovrete permettere di copiarla. — Ben volentieri, rispose l’oste„. Mentre così fra loro la discorrevano, Cardenio erasi tolta la novella, ed avea cominciato a leggere; e sembrandogli di trovarla quale il curato se l’era immaginata, lo pregò che egli la leggesse in modo da essere inteso da tutti. — Lo farò volentieri, soggiunse il curato, e sarà forse meglio occupare adesso il tempo a leggere piuttosto che a dormire„. Disse allora Dorotea: — Sarà per me un dolce riposo il gustare di un qualche racconto, perchè non ho ancora l’animo tanto quieto da poter dormire. — Or bene, ripigliò il curato, voglio leggerla per curiosità se non altro, e forse che vi sarà qualche cosa che ci piaccia„. Maestro Niccolò pregollo pur con ogni istanza, e così fece Sancio Panza; e vedendo il curato che avrebbe data soddisfazione a tutti nell’atto che si sarebbe egli pure intertenuto piacevolmente, disse: — Poichè così volete, porgetemi tutti attenti orecchio chè la novella comincia nella seguente maniera.