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capitolo xxxii. 339

un drago di fuoco, nol vide egli appena che gli saltò in groppa, e gli strinse con ambedue le mani la gola per modo che sentendosi il drago in procinto di essere strozzato, non trovò altro scampo che piombare al fondo del fiume strascinando seco il cavaliere che non per questo si volle staccare da lui: e quando poi furono abbasso egli si trovò in un palazzo e in un giardino sì vago ch’era maravigliosa cosa a vederli; ed ivi il drago si trasformò in un vecchio decrepito, da cui tali e tante cose gli furono dette che non si potrebbere sentire di più. Deh non si opponga vossignoria, chè se ella leggesse queste imprese impazzirebbe per lo piacere; e venga il canchero al gran Capitano e al signor don Diego Garzia„.

Dorotea ciò udendo, disse a Cardenio con voce sommessa: — Manca poco al nostr’oste di fare la seconda parte di don Chisciotte. — A me pure sembra così, rispose Cardenio; perchè agl’indizii che ci porge, egli tiene per indubitato che quanto raccontano quei suoi libri, sia stato nè più nè meno come vi è scritto, nè tutti i predicatori del mondo gli farebbero credere il contrario. — Badate bene, fratel mio, tornò a dire il curato, che non vi furono al mondo giammai nè Felice Marte d’Ircania, nè don Cirongilio di Tracia, nè gli altri cavalieri dei quali trattano i libri di cavalleria, tutti composti e immaginati da oziosi cervelli, intenti solo, come voi stesso diceste, a dare passatempo agli sfaccendati, quali sono i vostri segatori quando li leggono. Io vi giuro con asseveranza che mai non furono al mondo siffatti cavalieri, nè si diedero mai cotali prodezze e tali spropositi. — A me non si vendono lucciole per lanterne, rispose l’oste, come se io non sapessi quanti diti ha una mano, o dove mi duole la scarpa: e non si creda la signoria vostra d’ingannarmi perchè, viva il cielo,