Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XLV
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XLV.
Sciogliesi il dubbio sull’elmo di Mambrino e sulla bardella; e si narra la singolare avventura degli sgherri di campagna e del mirabile coraggio del nostro don Chisciotte.
— A me sembra bardella, disse don Chisciotte, ma ho già dichiarato che non voglio pronunziare giudizio sopra di ciò. — Eppure, soggiunse don Fernando, non v’è che il signor don Chisciotte che possa decidere, e ognuno di noi si sottomette a lui in affari di cavalleria. — lo vi giuro, o signori, disse don Chisciotte, che tali e tante e sì strane cose mi sono avvenute in questo castello nelle due volte che vi ho alloggiato, che non mi permetto di rispondere risolutamente sopra quanto qui avviene, persuaso che qui sempre abbia luogo qualche incantesimo. La prima volta mi ha dato molto che fare un Moro incantato che vi soggiornava, e la passò assai male anche Sancio mio fedele seguace; in questa notte medesima poi rimasi appiccato quasi due ore per questo braccio senza saper come o perchè m’incogliesse tanta sventura; e però sarebbe, a parer mio, troppo rischioso ogni giudizio pronunziato in mezzo a sì grande confusione di cose. Ho già fatto risposta intorno al dubbio se questo sia un bacino od un elmo, ma non oso definire se quest’altro sia bardella o fornimento da cavallo, e rimetto la decisione al saggio parere delle signorie vostre, chè forse per non esser ascritte alla cavalleria errante, com’io lo sono, non avranno forza contro le loro persone gl’incantamenti che predominano nel castello, e potranno giudicare delle cose come sono realmente, e non già come a me appariscono. — Non si può negare, replicò don Fernando, che il signor don Chisciotte non abbia parlato con molta saviezza rimettendo in noi la decisione di questo caso; e affinchè ciò proceda colla dovuta regolarità io raccoglierò segretamente il voto di tutti questi signori, e darò poi chiara e piena notizia di quanto giudicheranno„. Tutto ciò dava da ridere a quelli che conoscevano l’umore di don Chisciotte; ma a chi non n’era informato sembrava che tutto fosse una vera pazzia, ed erano specialmente di questo avviso don Luigi e i quattro suoi servitori, non meno che gli altri tre passeggieri giunti per caso a quell’osteria, e che aveano ciera da sgherri di campagna, come erano in fatto. Quegli che più di ogni altro ne trasecolava, era il nuovo barbiere, il quale vedeva dinanzi ai suoi occhi trasformato il suo bacino nell’elmo di Mambrino, e pensava che in ricchi fornimenti da cavallo avesse poi a cambiarsi anche la sua bardella. Tutti facevano grande schiamazzo nel veder in qual modo si andavano da don Fernando raccogliendo le voci dall’uno e dall’altro parlando loro all’orecchio affinchè dichiarassero se fosse bardella o fornimento da cavallo quella gioia che avea occasionata una sì tumultuosa discussione. Raccolti da lui i voti di coloro che conoscevano don Chisciotte, disse ad alta voce: — Il fatto sta, mio galant’uomo, che io sono annoiato di raccogliere tanti pareri, mentre ad ogni dimanda ch’io faccio mi si risponde essere uno sproposito l’asserire che questa sia bardella di giumento piuttosto che fornimento di cavallo, e di cavallo di razza; e però dovete avere pazienza, perchè a dispetto di voi e del vostro asino, questo è fornimento da cavallo e non è bardella, e voi per parte vostra adduceste prove assai deboli a sostegno della vostra opinione. — Dio non mi faccia salvo, disse il barbiere, se tutte le signorie vostre riveritissime non s’ingannano, e così comparisca l’anima mia al tribunale di Dio come questa è bardella e non fornimento da cavallo; ma così vanno le leggi; come.... e non dico di più: nè sono già briaco, ma digiuno ancora, se pur non m’avviene pe’ miei peccati. Non moveano meno alle risa l’insistenza del barbiere che gli spropositi di don Chisciotte, il quale disse a tal punto: — Altro non resta da fare se non che ognuno si prenda ciò che è suo, e a chi Dio l’ha data san Pietro la benedica. Uno de’ quattro servitori di don Luigi, soggiunse: — A meno che questa non sia burla già ordita, io non mi darò a credere mai che uomini di sì retto discernimento, come sembrano essere quelli che qui si trovano, abbiano cuore di sostenere che questo non è bacino, e quella non è bardella; ma poichè veggo che si ostinano in affermarlo, mi persuado che sotto ci covi qualche arcano, perchè al corpo di... (e fu quasi per bestemmiare) non vi sarà al mondo chi mi dia ad intendere che questo non sia bacino da barbiere e questa non sia bardella da asino. — Potrebbe anche darsi, disse il curato, che fosse da asina. — Tanto fa, il servitore soggiunse, chè in questo non istà l’essenza del fatto, ma sibbene che sia o no bardella, come le signorie vostre sostengono.
Udendo questo uno degli sgherri di campagna, ch’era allora entrato ed avea inteso il tenore della controversia, pieno di rabbia e di stizza, perchè venuta eragli la noia, si fece a dire: — Tanto è questa bardella, quanto mio padre; e chi dice o ha detto diversamente dev’essere briaco. — Menti come villano infame, rispose don Chisciotte, ed alzando il lancione, che non si lasciava mai uscire di mano, gli misurò un colpo sì giusto sopra la testa, che se lo sgherro non se ne fosse schermito, sarebbe rimasto morto disteso. Il lancione dando in terra si ruppe in pezzi, e gli altri sgherri che videro maltrattare il loro compagno, levaron la voce domandando che tutti dessero mano alla Santa Hermandada. L’oste, ch’era pure della consorteria, si affrettò a dare di piglio all’archibuso e alla spada, e si pose dal lato dei suoi compagni; i servitori di don Luigi tolsero in mezzo il loro padrone perchè in tanto scompiglio non iscapasse; il barbiere vedendo che la casa era sossopra, afferrò la sua bardella, e Sancio fece il medesimo; don Chisciotte impugnata la spada, attaccò allora la sbirraglia. Don Luigi intimava a’ suoi servi che lo lasciassero chè voleva accorrere alla difesa di don Chisciotte; Cardenio e Fernando si erano uniti per sostenerlo nella zuffa; il curato strillava; strillava l’ostessa; sua figlia affliggevasi; Maritorna piangeva; Dorotea era confusa; Lucinda era attonita; donna Chiara sbigottita. Il barbiere bastonava Sancio, e questi dava al barbiere un perfetto ricambio. Don Luigi colpì con un pugno sì forte uno dei suoi servidori che gli fece uscire il sangue di bocca, perchè aveva ardito pigliarlo per un braccio affinchè non fuggisse; il giudice lo difendeva; don Fernando calcava coi piedi uno sgherro e calpestavalo alla peggio; l’oste tornava a rinforzare le grida domandando che fosse aiutata la Santa Hermandada. Tutto era confusione nell’osteria, nè altro vi dominava che pianti, strida, schiamazzi, rimescolamenti, paure, disgrazie, coltellate, sorgozzoni, bastonate, calci e spargimenti di sangue. In mezzo a questo caos ed a questa confusione di tante cose, don Chisciotte si risovvenne della discordia universale seguita nel campo di Agramante1, e quindi si fece a dire con un tuono di voce per cui ne rimbombò l’osteria tutta: — Ognuno si fermi; si rimettano le spade nel fodero; tutti si acchetino, e mi ascoltino tutti quanti hanno cara la propria vita„. A questa voce terribile tutti arrestaronsi, ed egli proseguì a dire: — Non vel diss’io, o miei signori, che questo castello è incantato, e che senza dubbio qualche legione di demonii vi fa soggiorno? Bramo che vediate coi vostri propri occhi in prova del mio detto com’è venuta e trapiantata fra noi la Discordia che un tempo sconvolse il campo di Agramante: osservate, o signori, in qual modo qua si combatte per lo brando, là per lo cavallo, colà per l’aquila, costà per l’elmo; e tutti pugniamo e nessuno sa quello ch’egli si faccia. Orsù vengano le signorie vostre, signor giudice e signor curato: faccia l’uno la parte del re Agramante e l’altro quella del re Sobrino; e ottengano di rappacificarci; perchè, viva Dio, è pure una grande ribalderia che tanta gente e di sì alta portata come noi siamo, si ammazzino per cause tanto frivole. Gli sgherri che non capivano le frasi di don Chisciotte, e si trovavano malconci da don Fernando, da Cardenio e dai compagni loro, non voleano darsi pace; il barbiere avrebbe voluto finirla, perchè nella zuffa si era guasta tutta la barba e la bardella; Sancio, come leal servidore, obbedì alla voce del suo padrone; si acchetarono pure i quattro servi di don Luigi vedendo che loro tornava conto di così fare, e l’oste solo andava susurrando, che dovessero gastigarsi le insolenze di quel matto, il quale ad ogni istante metteva in iscompiglio tutta la sua osteria. Finalmente lo strepito cessò; la bardella restò per sella da cavallo sino al giorno del giudizio, il bacino per elmo, e l’osteria per castello nella immaginazione di don Chisciotte. Rimessa la tranquillità negli animi, e fattisi tutti amici a persuasione del curato e del giudice, tornarono i servi di don Luigi ad insistere che se n’andasse con loro. Frattanto il giudice si consigliò col curato, con don Fernando e con Cardenio intorno al partito che dovesse prendere nella sua difficile circostanza, informandoli di quanto era passato fra lui e don Luigi. In fine accordaronsi nel dire che don Fernando si facesse conoscere dai servi di don Luigi, e loro significasse di avere deciso che ’l giovane si recasse con lui nell’Andaluzia, dove avrebbe trovato, presso il marchese suo fratello, quell’accoglienza che dovuta era al suo merito ed alla sua condizione; poichè si vedeva il giovinetto disposto a lasciarsi mettere in pezzi piuttosto che tornarsene in quel modo e in quell’abito in casa del padre. Riconosciuta la nobiltà di don Fernando dai quattro servi ed intesa la volontà di don Luigi, stabilirono che tre di loro portassero a suo padre la nuova dell’avvenuto, e che restasse l’altro al servigio senza mai allontanarsene, fino a tanto che venissero altre disposizioni rispetto a lui.
A questo modo si assopì quell’incendio per l’autorità del re Agramante e per la prudenza del re Sobrino: ma vedendosi il nemico della concordia e l’odiatore della pace sprezzato e deriso, e che poco frutto acquistato avesse nel porre tutti in sì confuso laberinto, imprese di tentare altri scompigli, suscitando di bel nuovo quistioni e inquietudini. Si acchetarono gli sgherri per avere conosciuto la qualità delle persone colle quali erano venuti a contesa, e si ritirarono dalla zuffa immaginando benissimo che qualunque fosse stato il successo ne andavano eglino a perdere. Uno di costoro per altro (e fu quello macinato e pesto da don Fernando) si risovenne che fra gli ordini che seco recava, uno ne aveva per don Chisciotte, contro cui il tribunale avea decretato l’arresto per la libertà ch’egli avea data ai galeotti: disgrazia già preveduta da Sancio. Con questo pensiere, volle lo sgherro rendersi prima certo se i contrassegni rispondevano alla figura di don Chisciotte; e tratta fuori una pergamena trovò tutto quello ch’egli andava cercando. Misesi a leggere adagio (come inesperto lettore), e ad ogni parola guardava don Chisciotte, confrontando i segni del mandato con lui stesso; e accertatosi ch’egli era veramente quel desso, tenendo tuttora nella sinistra l’ordine dell’arresto, con la diritta pigliò don Chisciotte pel collare sì fortemente che non poteva nemmeno tirare il fiato, e gridò: “Date mano alla Santa Hermandada; e perchè si conosca la ragionevolezza del fatto, si legga quest’ordine, e si vegga che contiene la commissione di legare questo assassino da strada„. Il curato lesse l’ordine; e vide esser vero quanto lo sgherro asseriva. Ma il cavaliere errante vedendosi maltrattato a sì crudel modo da quel villano malandrino, raccolte quante forze potè mai avere, strinse con ambe le mani lo sgherro per la gola sì fortemente che avrebbe perduto la vita s’altri non accorreva in suo aiuto. L’oste, che dovea per necessità unirsi al partito della sbirraglia, accorse ad aiutarla; l’ostessa, che vide il marito involto in nuova zuffa, tornò a gridare, e così fecero Maritorna e la figliuola, chiedendo mercede al cielo ed agli astanti. Sancio vedendo quello che accadeva, disse: “Viva Dio, ch’è vero quanto si va dicendo dal mio padrone circa gl’incantesimi di questo castello, non essendo possibile di vivervi un’ora sola in quiete„. Don Fernando allontanò lo sgherro da don Chisciotte, e con piacere di entrambi sviticchiò loro le mani, colle quali si erano così fieramente abbrancati. Ad onta di tutto ciò insisteva la sbirraglia a voler prigione il colpevole, e lo domandarono ad alta voce, così esigendo il servigio del re e della giustizia, contro quel ladro ed assassino di strada. Don Chisciotte si mise a rider nel sentirsi così chiamare, e con molta gravità, disse loro: — Ascoltate, gente vile e malnata: chiamate voi dunque assaltare alla strada il donare la libertà ad uomini incatenati, il lasciar andare i prigioni, il soccorrere i miserabili, il rizzare i caduti, il dare aiuto ai bisognosi? Oh gente infame e degna per lo basso e vile vostro intendimento che il cielo non vi renda mai capaci di conoscere il valore che in sè racchiude l’errante cavalleria, nè vi faccia mai aprir gli occhi sull’errore e sulla ignoranza in cui siete mancando del rispetto che pur dovreste alla presenza, anzi pure all’ombra di qualsivoglia cavaliere errante! Ditemi, ladroni in quadriglia, e non già sgherri ma assassini da strada (con permissione del tribunale) ditemi: chi fu quell’ignorante che sottoscrisse l’ordine di arresto contro un cavaliere della mia portata? e non seppe che i cavalieri erranti vanno esenti da ogni procedura giudiziale, e che la loro legge è la spada, il tribunale il loro ardimento e le prammatiche del foro la loro volontà? Chi fu il mentecatto, ripeto, cui non sia noto che nessuna nobiltà di cittadino è fornita di tante preminenze ed esenzioni quante ne gode quella acquistata da ogni cavaliere errante nel giorno in cui si arma cavaliere e si dedica al duro esercizio della cavalleria? Quando mai in fatti è avvenuto che un cavaliere errante pagasse dazio, gabella, tassa, porto o tragitto? o polizza al sarto? o scotto al padrone del castello dov’egli alloggiasse? Qual re si rifiutò mai di averlo seco alla mensa? Quale si è quella donzella che non siasi affezionata a lui? E finalmente qual cavaliere errante fu, è, o sarà mai al mondo cui manchi l’animo per dare egli solo quattrocento bastonate a quattrocento sgherri cui saltasse in capo di offenderlo?„
Tali cose dicea don Chisciotte; e il curato frattanto attendeva a persuadere la sbirraglia ch’egli era un vero pazzo, di che n’erano prova le opere e le parole; e che in conseguenza desistessero dalla impresa, perchè se pure lo avessero arrestato, bisognava poi rimetterlo in libertà a titolo di pazzia. Ma colui che tenea l’ordine dell’arresto, rispose che non erano eglino i giudici competenti della pazzia di don Chisciotte, e ch’era suo preciso dovere di eseguire i comandi dei superiori arrestandolo; salvo poi a chi spetta, di rimetterlo in libertà.
— Va bene tutto questo, soggiunse il curato, ma ora nol dovete arrestare, nè si lascerà egli prendere per quanto io credo. In sostanza tanto seppe dire il curato, e tante pazzie fece don Chisciotte che sarebbero stati più di lui pazzi gli sgherri a non valutare le sue follie. In conseguenza credettero migliore consiglio di rappacificarsi con lui, e di farsi eziandio mediatori della pace fra il barbiere e Sancio Panza, che stavano tuttavia in accanita baruffa. Gli sgherri dunque, come membri della giustizia, composero la lite all’amichevole per modo che ognuna delle parti ne rimase se non contenta, soddisfatta in parte almeno, ordinando che si cambiassero le bardelle e non le cinghie nè le cavezze. Quanto poi all’elmo di Mambrino, il curato sottomano e senza che don Chisciotte se ne avvedesse, diede al barbiere otto reali, e n’ebbe la ricevuta colle solite dichiarazioni a reciproca eterna cauzione.
Posto fine in tal modo a queste risse, ch’erano le più importanti e principali, restava che i servitori di don Luigi si persuadessero di partire in tre, restando il quarto in compagnia di don Fernando dovunque gli fosse piaciuto di condurlo. Ma la fortuna che avea cominciato a volger propizia, si mostrò anche su tal punto molto benigna; perchè aderirono i servitori a tutto ciò che bramava don Luigi, di che n’ebbe donna Chiara sì gran giubilo che le traspariva dal volto in modo da essere conosciuto da ognuno. Zoraida tuttochè non comprendesse ancora bene gli avvenimenti, si rattristava e si rallegrava secondo gl’indizii degli altrui sembianti, e sopra tutto secondo quello del suo Spagnuolo, dal quale non distaccava mai gli occhi, perchè lo teneva fitto nel cuore. L’oste che aveva notata molto la ricompensa data dal curato al barbiere, domandò il pagamento della sua polizza per l’alloggio di don Chisciotte, e per la rottura degli otri in un colla perdita del vino, giurando che Ronzinante non sarebbe uscito dall’osteria e neppure l’asino di Sancio se prima non foss’egli stato soddisfatto interamente di ogni suo avere. Il curato trovò ripiego ad ogni cosa, e don Fernando pagò l’oste, benchè anche il giudice si fosse di buon volere a ciò offerto. In questo modo tutti restarono in pace, e così d’accordo che non pareva più che in quell’osteria avesse signoreggiato la discordia che sovvertì il campo del re Agramante, com’erasi cacciato in testa don Chisciotte, ma sì bene la pace e la quiete che regnò ai tempi di Ottaviano Augusto. Di tutto il successo fu universale opinione che si dovesse ringraziare il buon animo e la molta eloquenza del curato, non meno che la liberalità incomparabile di don Fernando.