Demetrio Pianelli/Parte terza/VII
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VII.
Oltre alle novità che Demetrio osservava in sè stesso (vale a dire una continua distrazione e quasi sospensione di volontà), c’era qualche cosa anche fuori di lui, che non cessava di risvegliare la sua meraviglia. Lasciamo stare che l’aria gli pareva diventata più lucida e trasparente: ma anche la gente mostravasi come per miracolo più affabile, più ossequiosa verso di lui.
Il Ramella, il portinaio dell’ufficio, che non si scomodava mai se non presso le feste di Natale, ora aveva cento cose da raccontare al signor Pianelli, e correva anche a tener l’uscio, quando lo vedeva passare. Sapendo che il cavalier Balzalotti doveva andare a Roma per la discussione del nuovo organico, il galantuomo si raccomandava al bravo signor Pianelli, perchè vedesse, cercasse di mettere una buona parola. Quando si hanno cinque figliuoli da mantenere e la donna che allatta, va compatito anche un povero padre di famiglia se si raccomanda. Il sor Pianelli era quel tal uomo, che aveva col cavaliere, diremo così, una entratura per la quale....
— Che entratura? — esclamava Demetrio ridendo.
Capiva i bisogni: ma che entratura? Il suo mestiere era di copiare e basta.
Un altro giorno s’incontrò nel Quintina, il gobbetto noto per la sua lingua lunga, che non era nemmeno della sua sezione.
— Oh, caro Pianelli, come sta? — prese a cantare colla sua voce chiara quel simpaticone, andandogli incontro e fermandolo a metà della scala. — Lei è bene il fratello del povero Cesarino?! Oh, guarda! eravamo tanto amici! Oh dica: è vero che il cavaliere va a Roma?
— Sì.
— Vorrebbe farmi la gentilezza di ricordargli una certa istanza che gli ho presentata? sa, senza farsi scorgere, dica così: Il ragionier Quintina chiede se ella ha ricevuto quella tal carta.... Mi fa un gran favore. E in quello che posso anch’io, comandi: son qui alla terza sezione.
— Bella anche questa! — ruminò Demetrio nell’andar su. — Si accorge ora ch’io sono al mondo, e pare che m’abbia tenuto a battesimo. Vuol diventare cavaliere, lo so; e incarica me di toccare il tempo al meccanismo.
Quel giorno stesso, o il giorno dopo, ricevette la visita del Bianconi, durante le ore in cui il cavaliere era a far colazione al Caffè Sanquirico.
— Come va, Bianconi? Non ci vediamo mai. Che miracolo?
Era costui un buon diavolo sulla cinquantina, tutto bianco di capelli, col viso ancora colorito e fresco, lavoratore instancabile, ma pieno di una grande soggezione per tutto ciò che riguardava un po’ da vicino i superiori, il ministero, quelli che comandano. Non aveva osato presentarsi al cavaliere, e anche adesso, sebbene l’avesse veduto uscire dalla porta, temeva sempre di averlo alle spalle.
Avanzandosi in punta dei piedi, con un dito sulla bocca posto come un uncino, disse con un fiato spento di voce:
— Va a Roma il...?
E segnò coll’indice mezzo nascosto dall’altra mano la poltrona vuota del cavaliere, verso la quale non osava quasi volgere il capo.
— Sì, perchè? — chiese Demetrio, la voce del quale impaurì il pover’uomo, che si volse a dare un’occhiata all’uscio.
— È perchè, — continuò, senza distaccare il dito dalla bocca, — vorrei che gli dicessi una parolina....
— O bravo, poichè ci sei, spiegami un po’ questo bel giuoco. A sentirvi, io ho l’organico in saccoccia....
— No, no, non si sa mai.... Una parolina.... — e, colle due mani congiunte come due ali, pareva che il Bianconi volesse covarla quella parolina così miracolosa.
— Per me, se mi cápita, la dirò: ma non capisco....
*
A toglierlo d’imbarazzo il cavaliere non si lasciò vedere per qualche giorno, o comparve un momento in gran furia, tutto occupato del suo fascio di carte da portare a Roma, e in continui colloqui con questo e quest’altro pezzo grosso dell’amministrazione. Del Pianelli non si curò più che della gamba del tavolo. Ciò avvenne il lunedì dopo il tenero colloquio con Beatrice. La sera il bravo signore partì col diretto e buon viaggio!
Demetrio rimasto solo e con poco da fare si preparò a godere una mezza vacanza. Egli aveva sempre davanti un bel panorama e nessuno poteva proibirgli ora di stare seduto coi ginocchi nelle mani o coi pollici tuffati nei taschini del panciotto, in estasi dietro la processione de’ suoi pensieri.
L’intensità di questa contemplazione era tale, che qualche volta dimenticava l’ufficio, il tavolino, la sedia, e zufolando, senza accorgersi, un’arietta, facendo saltare una gamba sull’altra, non si svegliava da quei sogni che alle acute trafitte che gli dava il cuoio duro della sedia, o a un certo dolore duro delle mascelle.
Intanto la lettera di Paolino continuava a rimanere schiacciata da un calamaio e da un «vedremo». Egli non intendeva di rubare a nessuno, ma credeva lecito di aggiornare la pratica, come si dice, nello stile del mestiere.
In mezzo alle gioie delle dolci visioni e tra gli indugi della volontà, respinta ma non strozzata, parlava però sempre la voce della coscienza onesta e ragionevole. «Che diavolo aveva indosso? e che gli saltava in mente? che nuova bestia ruggiva in lui? che cosa intendeva di fare? tagliare le gambe a Paolino? opporsi alla bontà della provvidenza? tradire una povera donna, rovinare lei, sè, gli innocenti? rendersi stupido, ridicolo? far ridere i polli colle sue contraddizioni? e che cosa erano queste scalmane? ohè, signor Demetrio, dove si va? si diventa matti? mancherebbe anche questa; oltre al tradimento farsi dei carichi di coscienza....». E il più bello era questo, che si accorgeva soltanto adesso che sua cognata era una donna e una bella donna per giunta. Che talento! aveva avuto bisogno che venissero dalle Cascine per dirglielo. Una commedia da burattini addirittura....
E nella evidenza del contrasto si metteva a rider forte, come se si trattasse di un babbeo fuori di lui. Il suono della sua voce lo richiamava alle cose e alle idee di questo mondo. Si alzava, aggiustava colle due mani la testa e le gambe ingranchite, dava una giravolta per la stanza, e via, pigliava il cappello, via a sciorinare la malinconia all’aria e al sole di piazza Castello, a cercare una salutare distrazione alle baracche del Tivoli, dove si mostrano le più grandi meraviglie dell’universo. Le piante vestivano il primo verde. Sull’orlo dei viali, ancora umidi e freschi, cresceva un’erba tenera che faceva piacere al cuore, come se quel poco verde, serpeggiante nell’arido anfiteatro di una grande città tutta polvere e sassi, fosse un ricordo della buona madre natura, che comincia fuori dei bastioni. Nello sfondo nitido di piazza d’Armi spiccava l’arco della pace, co’ suoi cavalli neri sul marmo bianco, e dietro l’arco uscivano le cime nevose delle prealpi lontane e del Monte Rosa, che nei giorni asciutti si rivela ai milanesi come l’idea un po’ confusa d’un mondo migliore.
Demetrio si distraeva volentieri dietro le evoluzioni dei cavalli, che manovravano davanti il castello, e stava a sentire le leggende dei saltimbanchi, delle sonnambule che vendono la fortuna che non hanno, degli spacciatori di mastici e di quanti concorrono e cooperano alla grande fabbrica del buon appetito. Quante miserie ha il mondo! che pietà gli facevano quei poveri bambini dei saltimbanchi, scialbi di fame, e tremanti sotto il sole di maggio! E c’è della gente che prende gusto a popolare il mondo di morti di fame, di tisici, di ladroncelli, di pidocchiosi.... Anche lui aspirava a questa gloria della propagazione degli stracci! che amore? egoismo, niente altro che egoismo! «Con questa logica si può giustificare il ladro e l’assassino che ti pianta il coltello nel cuore. Approfittare della confidenza di un amico per tradirlo, per tagliargli le gambe.... beh! azione infame, azione da ragazza che dice: dammi indietro la mia pigotta, che non gioco più. Egoismo, passionaccia sporca, desiderio bestiale. L’amore è grande, l’amore è bello, l’amore è poetico, è generoso l’amore....».
E via sempre di questo passo a voltare e a rivoltare la questione. Ed ebbe la pazienza di continuare due o tre giorni in questa strana, maledetta battaglia. Ma il buon senso c’è per qualche cosa: passata la terzana, un dopopranzo, prese la lettera di Paolino, la mise in una bella busta di carta, e con passo risoluto, di prussiano ch’entra in Parigi, andò in Carrobio a perorare la causa del più onesto, del più buono, del più generoso degli uomini.
Le tentazioni non bisogna allattarle, ma cercare di strozzarle in cuna. Dente strappato non duole più.