Demetrio Pianelli/Parte terza/I
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I.
Paolino delle Cascine da qualche tempo pensava di mettere il capo a partito e di prendere moglie una volta per sempre.
Già, è un passo che bisogna fare, e più ci si pensa, meno ci si riesce. Gli anni passavano anche per lui e ad aspettar troppo si arrischia poi di mettere i buoi dietro al carro.
Era in questi riflessi, quando capitò, come s’è visto, improvvisamente la vedova Pianelli. Sulle prime non fu nulla; ma passata la sorpresa, e specialmente quando ella fu partita, egli cominciò a sentire il cuore in disordine, a vedere l’immagine di quella donna dappertutto, come un luminello bianco dopo che si è guardato nel sole, che ti resta nella pupilla, che vedi sempre anche nel buio, anche a chiudere gli occhi, anche a cacciare la testa sotto un cuscino.
Quest’apparizione imbrogliò i suoi progetti. Tutte le altre ragazze dei dintorni, sulle quali da un pezzo in qua andava raccogliendo il pensiero, divennero, al confronto della bellissima vedova di Milano, figure scialbe di camposanto.
Quella donna l’aveva commosso, gli aveva rotto il cuore con quel suo piangere sfrenato, con quelle scene di tenerezza e di dolore. Quando essa si tirava vicini i ragazzi, e se li stringeva al cuore, Paolino scappava sempre nei prati a piangere anche lui come un ragazzo.
Ora che Beatrice non c’era più, sentiva una specie di caverna di dentro. Prova a ragionare, se puoi, in queste faccende!
Capiva anche lui che una cosa è prendere moglie secondo le regole di natura e un’altra è sposare una vedova con tre figliuoli. Per quanto un uomo sia ben provveduto del suo, per quante ragioni il cuore metta all’ordine del giorno, tre figliuoli son sempre tre figliuoli. La gente vuol parlare, e Paolino, animo già non troppo coraggioso, si sentiva impaurito dal pensiero delle ciarle che si sarebbero fatte.
Ma ormai non sapeva pensare ad altro. Non mangiava più, usciva la mattina col cappello tirato sugli occhi, prendeva una strada qualunque attraverso i prati, andava un gran pezzo, coi piedi nell’erba, col capo nelle nuvole, finchè, sentendosi isolato nella silenziosa solitudine, si metteva a sedere sul margine di una riva o d’una gora, all’ombra d’un salice, cogli occhi fissi al bigio orizzonte, dove tra due fusti esili di pioppo si disegnava nello sfondo nebbioso di Milano la guglia sottile del Duomo.
La sua esistenza era là, tra quei due tronchi, su quella guglia sottile.
Non si può dire il bene che gli aveva fatto la letterina di Arabella. Se la teneva sempre con sè, nel portafogli, sul cuore, e nei momenti d’estasi la leggeva dieci volte di fila, a voce alta, provando quasi un senso di freschezza, un refrigerio ai suoi tormenti nelle parole dell’innocenza. Dio parla spesso per la bocca dei fanciulli. Anche Sant’Ambrogio, dice la storia, fu nominato arcivescovo per la bocca di un bambino.
Ma a momenti di gioia succedevano altri momenti di sfinimento, di tristezza, di disperazione. Egli era un matto a credere che Beatrice volesse rimaritarsi, o anche, dato il caso, che volesse sposare un villano delle Cascine, prendere sul serio un Paolino qualunque, una donna come lei, abituata alla vita di Milano, una donna molto elegante, una donna ancor giovane e fresca, una donna, insomma, che poteva ben sposare un conte, un banchiere, un consigliere di prefettura.
La nessuna voglia di mangiare in un uomo, che di solito divorava il suo pane di quattro soldi per antipasto, rese pensierosa la buona sorella Carolina, che una sera, coltolo solo nell’orto, lo tirò sotto un capanno di zucche e cominciò a dirgli colla sua flemmatica bontà:
— Tu hai qualche dispiacere, Paolino.
— Io no.
— Sì, tu hai qualche dispiacere che non vuoi dire.
— Ti dico di no.
— C’è qualcuno che ha detto male di te o che ti invidia?
— Chi vuoi, cara te?
— Hai venduto male le bestie?
— Tutt’altro.
— Ti fan male le scarpe?
— Mi vanno benissimo — disse Paolino, mettendo innanzi un piede grande come un basamento.
— Allora è segno, — soggiunse la sorella, posando le mani giunte sul grembiale — è segno che vuoi prender moglie.
Paolino, appoggiate le due braccia ai ginocchi e il volto ai due pugni stretti, disse con un piglio sgarbato:
— Nel caso, non sarei io il primo.
— Avresti dovuto già farlo. Hai fissato l’occhio su qualcheduna?
Paolino tentennò il capo e fissò gli occhi in fondo in fondo sopra una siepe di sambuco, che cominciava allora a vestirsi di verde.
— È la Teresina dei Bareggi?
Paolino disse di no col capo.
— Allora è la figlia del fattore di casa Prinetti.
— Perchè dev’esser quella?
— Perchè viene tutte le domeniche a messa alla Colorina.
— La voglio bella o niente.
— Che cosa vuol dire bella? Non è il manico d’oro o d’argento che fa bella una scopa.
— Ah brava! — gridò Paolino ridendo — tu paragoni una moglie a una scopa.
— No, faccio per dire che non bisogna guardare agli accessori, quando ci sia il principale, cioè salute, religione e voglia di lavorare. Queste signore della giornata, che escono dalle monache, che mettono le mani sotto il grembiale tutte le volte che hanno bisogno di traversare la corte, che svengono se vedono uccidere un cappone, che non sanno spennacchiare una gallina, sono buone per i signori milanesi, per i signori impiegati. Tu hai bisogno di legno forte e stagionato.
Paolino, stringendo tra i due indici la canna del naso, lanciò di sottecchi un’occhiata alla sorella, per indovinare se parlava a caso o di proposito.
— È di Lodi questa tua bellezza?
— No.
— Di Melegnano?
— No, cioè no e sì.
— Di San Donato?
— Oibò.
— Di Milano?
— Sì, cioè.... — Paolino tirò un sospirone.
— La conosco io?
— Diavolo!....
— Uhm!
La Carolina, che, sotto alla sua pacifica bontà era avveduta e furba, finse di non sapere orientarsi, per rendere la sua meraviglia ancora più meravigliosa, quando Paolino mettesse fuori il nome di Beatrice. Per la buona donna questo matrimonio sarebbe stato naturalmente una disgrazia.
Paolino capì il significato della reticenza e tagliò corto:
— Se non indovini, è segno ch’io son matto da legare. Non parliamone più.
Lì in terra c’era un pezzo di mattone. Paolino lo raccolse, lo palleggiò un momento nelle mani e con un’energia vera da matto disperato lo tirò in una siepe di mortella, facendo correre e cantare tutte le galline che pascolavano nell’insalata nuova. Capiva benissimo che una donna saggia e prudente non poteva consigliare a un buon figliuolo di sposare una vedova con tre ragazzi. Capiva benissimo che il matto era lui e perciò si sarebbe lapidato colle sue mani.
Voltò via e non si lasciò più vedere per ventiquattro ore.
Finalmente pensò di parlarne a Demetrio, il solo che poteva dargli un consiglio sincero e disinteressato. Demetrio gli voleva bene, si conoscevano da un pezzo, erano due fave dello stesso guscio. A parlare non si fa peccato, e le passioni bisogna tirarle fuori e metterle all’aria, se si vuole che perdano le pieghe. Senza dir nulla alla Carolina, il giorno preciso di Pasqua di Risurrezione, scappò a Milano.
O sarebbe risuscitato anche lui: o se doveva essere sepolto, meglio morto e sepolto, che vivere infilato sopra uno spillo.