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gine di una riva o d’una gora, all’ombra d’un salice, cogli occhi fissi al bigio orizzonte, dove tra due fusti esili di pioppo si disegnava nello sfondo nebbioso di Milano la guglia sottile del Duomo.
La sua esistenza era là, tra quei due tronchi, su quella guglia sottile.
Non si può dire il bene che gli aveva fatto la letterina di Arabella. Se la teneva sempre con sè, nel portafogli, sul cuore, e nei momenti d’estasi la leggeva dieci volte di fila, a voce alta, provando quasi un senso di freschezza, un refrigerio ai suoi tormenti nelle parole dell’innocenza. Dio parla spesso per la bocca dei fanciulli. Anche Sant’Ambrogio, dice la storia, fu nominato arcivescovo per la bocca di un bambino.
Ma a momenti di gioia succedevano altri momenti di sfinimento, di tristezza, di disperazione. Egli era un matto a credere che Beatrice volesse rimaritarsi, o anche, dato il caso, che volesse sposare un villano delle Cascine, prendere sul serio un Paolino qualunque, una donna come lei, abituata alla vita di Milano, una donna molto elegante, una donna ancor giovane e fresca, una donna, insomma, che poteva ben sposare un conte, un banchiere, un consigliere di prefettura.
La nessuna voglia di mangiare in un uomo, che di solito divorava il suo pane di quattro