Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo VIII
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Capitolo Ottavo
Con qual governo gioverebbe piú di supplire alla tirannide.
Ma giá giá mille altre obbiezioni non meno importanti m’insorgono d’ogni intorno: e queste saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere. — Piú facil cosa è il biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare. Che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, giá ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono; e per quelli che il sono inutilissimo era il dimostrarlo. Le storie tutte fanno fede della massima instabilitá dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che non si dée soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s’insegnano per eternare la libertá. —
Queste o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle, e non cosí facile l’impugnarle. Quanto alla prima, rispondo di volo che io non credo niente inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non giá che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, poich’essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai piú saldamente fondata, e assai piú durevole quindi e fatale.
Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto piú lungamente. Il dimostrare qual sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere un tacito insegnamento di ciò che potrebbe esser il bene; che in tutto è il contrario del male. — Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb’egli introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di piú? —
Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a questo importante quesito, dico che quando si ritrovasse l’Italia nelle circostanze a ciò necessarie, quegl’italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno viziosa forma dei governi, quegli italiani d’allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l’indole, i costumi e le passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che operare allor si dovrebbe pel meglio, cioè pel meno male.
Se io, all’incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di farlo col pormi ad un’altra opera, e intitolarla Della Repubblica; nella quale individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia. Ma, quando puranche mi credessi io di avere e senno e lumi, e dottrina ed ingegno da ciò, bisognerebbe nondimeno sempre che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un tal libro mi protestassi, ch’ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e d’inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo e virtú (atteso il contrario e continuo impulso della natura umana, che assai piú è propensa al bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei piú) vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse. E sarei anche sforzato in quella mia prefazione di aggiungervi che quegli ordini che convengono ad uno stato disconvengono spessissimo all’altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare, che il cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini, dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo. E mille e mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella Repubblica mia; le quali cose per essere giá state dette meglio ch’io non le direi mai, massimamente da quel nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma pur troppo, contra l’intenzione dell’autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della inutilitá di un libro. E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia, ragionata e adattabile a tempi, luoghi, religioni, opinioni e costumi diversi; ella non verrebbe tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni che necessarie sarebbero per quella data effettiva societá; la quale certamente in alcuna cosa differirá da alcuna delle supposizioni dell’ideale legislatore. Ma quando anche poi una tale scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo un governo che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo o mutarlo o affatto distruggerlo.
Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia se un tale assunto imprendessi, sapendo giá prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno inutile riuscirebbe il mio libro. Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse) ogniqualvolta un tal libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentate al lettore, ne potrebbe frattanto, s’io non erro, ridondar questo bene che, ove una repubblica insorgente in questi, o nei futuri tempi, sopra le rovine d’alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare quanto piú le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitú da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso e stabilitá. Che se io minutamente ho dimostrato come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse come potrebbe essere costituita una repubblica. E il primo di tutti i rimedi contro alla tirannide, ancorché tacito e lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché oppressi ne siano) lá dove i pochi non osino appien disvelarla.
Ma, quanto è necessario l’impeto, l’audacia e (per cosí dire) una sacra rabbia, per disvelare, combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l’uomo stesso potrebbe esser atto egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché dissimile nella lor mèta. Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo che, le opinioni politiche (come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere e contenere con la forza chi non desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli. Aggiungerò che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresí piú spesso necessaria la violenza, e qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d’uno ingiusto e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertá. La ragione, a parer mio, è patente. La tirannide non sottentra alla libertá, se non se con una forza effettiva, e talmente preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l’universale. E mentre con l’una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll’altra a piena mano quell’oro che ha colla spada estorquito. Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri piú, che giá guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace. Ma, la nascente libertá, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s’impinguavano della tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco l’apprezza e mal la conosce; la nascente libertá, divina impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensitá, e che da quei soli pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei piú; ov’essa per qualche beata circostanza perviene a pigliar alcun corpo, non dovendo trascurar l’occasione di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti rei che cittadini ridivenir piú non possono, e che pur possono tanti altri impedirne o guastarne. Deplorabile necessitá, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe puranche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario spettacolo dei figli di Bruto fatti uccidere dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e generoso impulso di libertá, che per ben tre secoli poi la fece sí grande e beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire che non vi essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontá e opinione, e non potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente, pel solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano e scrivono; il piú virtuoso individuo, il piú costumato, il piú umano si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore che i tiranni stessi, coll’eccedere ogni ragionevole modo, piú rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontá e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo e perfino scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all’essere liberi, piú ancora che dall’esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai piú durevoli, ne dée nascere un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure quel giorno, in cui un popolo, giá oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue, per cui da molte generazioni di servi e corrotti individui se n’è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia di liberi e virtuosi uomini.