Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo VII

Capitolo VII

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Capitolo Settimo

Come si possa rimediare alla tirannide.

La volontá, o la opinione di tutti, o dei piú, mantiene sola la tirannide; la volontá, e l’opinione di tutti, o dei piú, può sola veramente distruggerla. Ma se nelle nostre tirannidi l’universale non ha idea d’altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei piú, questo nuovo pensiero di libertá? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr tale effetto nessuno ve ne ha; e che nei paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.

E giá mi avveggo che in grazia di questa fatal veritá mi perdonano i tiranni europèi tutto ciò che fin’ora intorno ad essi mi è occorso di ragionare. Ma, per moderare alquanto questa loro non meno stolta che inumanissima gioia, osserverò che ancorché non vi siano efficaci e pronti rimedi contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo, rapidissimo ed infallibile, contra i tiranni.

Stanno i rimedi contra al tiranno in mano d’ogni qualunque piú oscuro privato; ma i piú efficaci e brevi e certi rimedi contra la tirannide stanno (chi ’l crederebbe?) in mano dello stesso tiranno; e mi spiego. Un animo feroce e libero, allorquando è privatamente oltraggiato, o quando gli oltraggi fatti all’universale vivissimamente il colpiscono, puó da sé solo in un istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi animi allignassero nelle [p. 96 modifica] tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangierebbe il pensiero, e si verrebbe cosí a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide. Ma siccome gli uomini di una tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo spegnere il solo tiranno null’altro opera per lo piú che accrescere la tirannide; io sono costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima veritá; ed è, che nella crudeltá stessa, nelle continue ingiustizie, nelle rapine e nelle atroci disonestá del tiranno, sta posto il piú breve, il piú efficace, il piú certo rimedio contra la tirannide. Quanto piú reo e scellerato è il tiranno, quanto piú oltre spinge manifestamente l’abuso dell’abusiva sua illimitata autoritá; tanto piú lascia egli luogo a sperare che la moltitudine finalmente si risenta, e che ascolti ed intenda e s’infiammi del vero, e ponga quindi solennemente fine per sempre a un cosí feroce e sragionevol governo. È da considerarsi che la moltitudine rarissimamente si persuade della possibilitá di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o piú successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi eccessi inauditi.

Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d’un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di piú anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non avrebbe altro migliore né piú certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare e perfino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad ogni piú atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autoritá odiosissima e insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole: «la sua persona», «la sua autoritá» e «a tutti»; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore movendo l’universale e gl’individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso [p. 97 modifica] interamente entrambi distruggere. Questo infame ed atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa cosí importante e difficile. Inorridito ho nel dirlo; ma vie piú inorridisco in pensare quai siano questi governi, ne’ quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevitá il sommo bene di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a desistersi dall’altramente ineseguibile impresa. Quindi è che un tal uomo non si può mai ritrovare, e che questo sopraccennato rapido effetto dell’abuso della tirannide non si può aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero. Ma questi, non volendo perdere del proprio altro che la fama (che giá per lo piú mai non ebbe) e volendo egli assolutamente conservare la usurpata autoritá, le prede e la vita; questi lascierá bensí diventare il tiranno crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell’eccesso che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta.

Da ciò proviene che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l’arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e cosí ben velate e varie e saldissime basi che, non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll’universale, e non gli eccedendo quasiché mai co’ privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalitá, la tirannide si è come assicurata in eterno.

Or ecco, ch’io giá mi sento d’intorno gridare: «Ma, essendo queste tirannidi moderate e soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?» — Perché non sempre le piú crudeli ingiurie son quelle che offendono piú crudelmente; perché si debbono misurare i mali dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma colui che ti cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai piú. Tutte le facoltá dell’animo nostro intorpidite, tutti i diritti dell’uomo menomati o ritolti, tutte le magnanime volontá impedite o deviate dal vero, e mille e mille [p. 98 modifica] altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei se qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell’uomo consista nell’animo e nell’intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva all’uomo, che nato si sente al pensare e adoperare altamente, di conservare tremante la vita del corpo, gli averi e l’altre sue cose (e queste né anche sicure) per poi perdere, senza speranza di riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i piú nobili e veri pregi dell’anima?