Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo XI
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Capitolo Undecimo
Della nobiltá.
Havvi una classe di gente che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltá; e si dée, non meno che la classe dei sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei piú feroci e permanenti sostegni della tirannide.
E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch’elle in sé questo ceto, è da osservarsi che giá lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertá; che questo ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinii; che i romani non accordarono d’allora in poi nobiltá, se non alla sola virtú; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtú di quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizi di assumere la tirannide; e che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo, credendo di abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma erano patrizi che, mascheratisi da Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch’elle nascano, o tosto o tardi le distruggeranno, e faran serve, ancorché non vi siano da prima piú potenti che il popolo. Ma in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dée mai creare nel proprio seno un sí fatale stromento di servitú, né mai staccare dalla causa comune nessuno individuo, né (molto meno) staccarne a perpetuitá nessuna intera classe di cittadini. Pure, per altra parte moltissimo giovando alla emulazione e non poco alla miglior discussione dei pubblici affari, l’aver nella repubblica un ceto minor in numero, e maggiore in virtú al ceto di tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a vita od a tempo, ma non ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltá, senza poterne operare mai niuno dei mali che ella tutto giorno pur vi opera.
Natura dell’uomo si è che quanto egli piú ha tanto desidera piú, e tanto maggiormente in grado si trova di assumersi piú. Al ceto dei nobili ereditari, avendo essi la primazia e le ricchezze, altro non manca se non la maggior autoritá, e quindi ad altro non pensano che ad usurparla. Per via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur sempre di tanto minori del popolo. Per arte dunque, per corruzione e per fraude, tentano di usurparla. Ma, o fra loro tutti si accordano, e, per invidia l’uno dell’altro, rimanendo la usurpata autoritá nelle mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide aristocratica; ovvero tra quei nobili se ne trova uno piú accorto, piú valente e piú reo degli altri, che parte ne inganna, parte ne perseguita o distrugge, e fingendo di assumere le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto signore di tutti: ed ecco come sorge la tirannide d’un solo. Ed ecco come ogni tirannide ha sempre per origine la primazia ereditaria di pochi; poiché la tirannide importando necessariamente sempre lesione e danno dei piú, ella non si può mai originare né lungamente esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione ed il danno di se stessi.
Conchiudo adunque, quanto alla ereditaria nobiltá, che quelle repubbliche in cui ella è giá stabilita, non possono durar libere di vera politica libertá: e che nelle tirannidi questa vera libertá non vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi rimangono de’ nobili ereditari; e le tirannidi nelle loro rivoluzioni non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltá. Cosí Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinii, rimanendovi pure, dopo svanito il comune pericolo, assai piú potenti i patrizi che il popolo, Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazion dei tribuni. Questo popolar magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a gareggiare col popolo in virtú; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti. Ma il mal seme pur rimaneva, e all’accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò piú che mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, cosí guasti, in breve la repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace veritá osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltá ed il popolo erano state per piú secoli il nerbo, la grandezza e la vita di Roma: ma la sacra veritá comandava pur anco che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi la intera rovina; e il come e il perché ampiamente da essi indagar si dovea. Ed io mi fo a credere che, se tali due sommi avessero voluto od osato spingere alquanto piú oltre il loro riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltá. Che se le dissensioni, o per dir meglio, le disparitá di opinioni sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertá, bisogna pur confessare che le disparitá d’interessi dannosissime vi riescono, e di necessitá mortifere, ogni qual volta l’uno dei due diversi interessi interamente la vince. Ora mi pare innegabile che ogni primazia ereditaria di pochi genera per forza in quei pochi un interesse di conservazione e di accrescimento, diverso ed opposto all’interesse di tutti. Ed ecco il vizio radicale per cui, ogni qual volta in uno stato esisterá una classe di nobili e di sacerdoti, a parte dal popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione e la rovina di tutti; e i nobili, per essere ereditari, riusciranno quasi piú dannosi che i sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto; ma, per dire il vero, abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro ereditarie impolitiche massime, che da ogni loro individuo in un colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che, per maggiormente perfezionare questo comune danno, le piú cospicue sacerdotali dignitá sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei nobili; dal che ne risulta che i sacerdoti doppiamente dannosi riescono al pubblico bene.
E benché in Inghilterra vi siano per ora e nobili e libertá, non mi rimuovo io perciò in nulla da questo mio su mentovato parere. Si osservi da prima che in Inghilterra i veri nobili antichi, nelle spesse e sanguinose rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti di fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero assumere né in una né in due generazioni quella superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi ancora i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien bevuta col latte dai nobili antichi, interamente staccati nelle nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono lungamente stati gli oppressori e tiranni. Si osservi in oltre che i nobili in Inghilterra, presi in se stessi, sono meno potenti del popolo; e che, uniti col popolo, sono piú che il re; ma che, uniti col re, non sono però mai piú che il popolo. Si osservi in oltre che se in alcuna cosa la repubblica inglese pare piú saldamente costituita che la romana, si è nell’essere in Inghilterra la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma accesa bensí fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si oppone. Quindi, non essendo questa dissensione generata da disparitá di ereditario interesse, ma da disparitá di passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai piú che a nuocere; poiché nessuno talmente aderisce a una parte ch’egli non possa spessissimo passare dalla contraria, nessuna delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di tutti. Una nobiltá dunque cosí felicemente rattemperata come la inglese lo pare, per certo riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse non le mancherebbe che di non essere ereditaria. Una classe di uomini principali, e non amovibili membri del governo, ov’ella fosse creata dalla vera virtú e dai liberi suffragi di tutti, vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e grandissima emulazione di virtú si verrebbe ad accendere fra i concorrenti ad essa. Ma se disgraziatamente ereditaria una tal classe si ammette, ancorch’ella si creasse da liberi e virtuosi suffragi, tuttavia ad ogni individuo inglese che verrá creato nobile ereditario, si perderá per tal mezzo una intera stirpe, che cosí viene staccata dall’interesse comune, deviata dal vantaggio di tutti, e privata d’ogni emulazione al ben fare. Quindi è che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno dannosi che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal re ad arbitrio suo, e senza alcun limite, credendosi essi maggiori del popolo, essendovi e piú ricchi e piú sazi e piú oziosi e piú guasti assai che non è il popolo; i nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo maggiormente propensi all’autoritá del re, il quale creati gli ha e spegnerli non potrebbe, che non all’autoritá del popolo, il quale non può creargli e li potrebbe pure distruggere. In Inghilterra perciò (come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o giá sono, i corrompitori della libertá; ove, prima di ciò, abbattuti maggiormente non siano dal popolo. Ma, non essendo la repubblica il mio tema, abbastanza e troppo lungamente forse, ho io parlato fin qui dei nobili nelle repubbliche. Mi convien dunque ora lungamente ragionare dei nobili nelle moderne nostre tirannidi.
Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa, divise le provincie fra diversi popoli; ed infiniti stati da quell’immenso stato nascevano. Ma in tutti insorgeva una nuova specie di governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni rendendo omaggio ad un solo e maggiore, teneano, sotto il titolo di feudatari, nella oppressione e servitú i vari lor popoli. Alcuni di questi tiranni feudatari divennero cosí potenti che, ribellatisi al loro sovrano, si crearono stato a parte, e non pochi dei presenti tiranni d’Europa son della stirpe di quei signorotti. E, per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresí col tempo abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto quei secondi tiranni, e rimanere essi soli sovrani. Comunque ciò fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene; anzi è verisimile che, assicurato ed ingrandito il loro stato, i tiranni maggiori, avendo meno rispetti, piú illimitata potenza, e minori nemici, ne divennero con molta piú impunitá e sicurezza oppressori del loro misero gregge.
Ma quanto erano stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatari, finché aveano avuto autoritá e forza, quanto erano stati ostacolo, e in un certo modo freno, alla compiuta tirannide di quel solo; altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che rimasero spogliati dell’autoritá e della forza. I tiranni si prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i signorotti; ed il popolo, che avea da vendicar tante ingiurie, volenteroso seguitò l’animositá di quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e minori. Allora qual dei signorotti si dette per accordo al tiranno, e quale contr’esso rivolse le armi. Ma, o patteggiati, o vinti ch’ei fossero, tutti, od i piú, coll’andar del tempo soggiacquero. Non si estinse tuttavia interamente mai quel male che ridondava da questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la servitú per il popolo; notabilmente si accrebbe bensí l’autoritá e la forza del tiranno. Conobbero i tiranni la necessitá di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che paresse alquanto piú potente che il popolo, e fosse assai meno potente di loro: e benissimo conobbero che, distribuendo fra costoro gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questo col tempo i piú feroci e saldi satelliti della loro tirannide.
Né s’ingannarono in tal fatto i tiranni. I nobili, spogliati affatto della loro autoritá e forza, ma non interamente delle loro ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano essi nella tirannide continuare ad esser tenuti maggiori del popolo, se non se risplendendo della luce del tiranno. L’impossibilitá di riacquistare l’antica potenza li costrinse ad adattare la loro ambizione alla necessitá ed ai tempi. Dal popolo, che non s’era certamente scordato delle loro antiche oppressioni; dal popolo che gli abborriva, perché li credeva ancora troppo piú potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli ancor che il volesse, videro chiaramente i nobili che non v’era luogo a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro. Si gittarono dunque interamente in braccio al tiranno; ed egli, non li temendo oramai e vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della tirannide, li preelesse ad esserne i depositari e il sostegno.
E questa è la nobiltá, che nelle tirannidi d’Europa tutto giorno poi vedesi cosí insolente col popolo, e cosí vil coi tiranni. Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la piú corrotta; ella è perciò l’ornamento principalissimo delle corti, il maggiore obbrobrio della servitú, e il giusto ludibrio dei pochi che pensano. Degeneri dai loro avi nella fierezza, i nobili sono gl’inventori primieri d’ogni adulazione, d’ogni piú vile prostituzione al tiranno; ma non tralignano giá essi nella superbia e crudeltá contro al popolo. Anzi, vie piú inferociti per la loro perduta potenza effettiva, lo tiranneggiano quanto piú sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno, se egli lo permette; e se egli lo vieta (il che di rado accadeva fino allo stabilimento della perpetua milizia) non lasciano pure di opprimere il popolo di furto, con quanta prepotenza piú possono.
Ma dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in Europa, i tiranni vedendosi armati e effettivamente potenti, hanno incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltá, e a sottoporla anch’essa alla giustizia non meno che il popolo, allorquando ad essi cosí giova o piace di fare. La vista politica del tiranno, nel volersi mostrare imparziale pe’ nobili, è stata di riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili d’odiositá degli antecedenti governi. Ed io mi fo a credere che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi, ove fossero egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli pure inclinerebbe piú per il popolo; ancorché pur sempre sentisse che a tenere il popolo a freno egli è, in un certo modo, necessarissimo il naturale argine della nobiltá, cioè dei piú ricchi ed illustri. E di questo semi-amore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la seguente ragione. La nobiltá, per quanto sia ignorante e mal educata, pure, come alquanto meno oppressa e piú agiata, ella ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto piú che il popolo; ella si avvicina molto piú al tiranno; ella ne studia e ne conosce piú l’indole, i vizi e la nullitá. Si aggiunga a questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede di avere talvolta dei nobili; e da questo tutto si verrá facilmente ad intendere quell’innato odio contr’essi che sta nel cuor del tiranno; il quale non può né dée voler che si pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo spia e conosce. Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolaritá, che molti dei moderni tiranni europèi van facendo; come anche le tante mortificazioni che vanno compartendo ai lor nobili. Il popolo, soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne sopporta piú volentieri il comune oppressore e la divisa oppressione. I nobili rodono la catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono per romperla. Il tiranno se ne sta fra’ due, distribuendo ad entrambi a vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze; e cosí vie piú sempre corrobora egli e perpetua la tirannide. Non distrugge egli i nobili, se non se a minuto i piú antichi, per riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma piú soggetti e arrendevoli a lui; e non li distrugge il tiranno perché li crede (ed il sono) essenzialissima parte della tirannide. Non li teme, perch’egli è armato; non gli stima, perché li conosce; non gli ama, perché lo conoscono. Il popolo non mormora dei gravosi eserciti, perch’egli non ragiona, e ne trema; ma con molta gioia bensí per via degli eserciti vede i nobili starsi non meno soggetti e tremanti di lui.
I nobili ereditari son dunque una parte integrante della tirannide, perché non può allignar lungamente libertá vera dove esiste una classe primeggiante, che tale non sia per virtú ed elezione. Ma la milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide, piú integrante ancora di quel che lo sia la nobiltá, ha tolto ai nobili la possibilitá di far fronte al tiranno e diminuita in loro quella di opprimere il popolo.