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Capitolo Undecimo
Della nobiltá.
Havvi una classe di gente che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltá; e si dée, non meno che la classe dei sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei piú feroci e permanenti sostegni della tirannide.
E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch’elle in sé questo ceto, è da osservarsi che giá lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertá; che questo ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinii; che i romani non accordarono d’allora in poi nobiltá, se non alla sola virtú; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtú di quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizi di assumere la tirannide; e che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo, credendo di abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma erano patrizi che, mascheratisi da Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch’elle nascano, o tosto o tardi le distruggeranno, e faran serve, ancorché non vi siano da prima piú potenti che il popolo. Ma in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dée mai creare nel proprio seno un sí fatale stromento di servitú, né mai staccare dalla causa comune nessuno individuo, né (molto meno) staccarne a perpetuitá nessuna intera classe di cittadini. Pure, per altra parte moltissimo giovando alla emulazione e non poco alla miglior discussione dei pubblici affari, l’aver nella repubblica un ceto minor in numero, e maggiore in virtú al ceto di tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo