Della moneta/Appendice/II
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II
AVVISO PREMESSO ALLA SECONDA EDIZIONE
Comparve l’opera della Moneta la prima volta in luce nel 1750 senza nome d’autore. Era però frutto giovanile di Ferdinando Galiani, che la compose non finito ancora il ventunesimo anno della sua etá. Composela senz’aiuto d’uomo veruno e con poco aiuto di libri. Gli mancò l’aiuto altrui, perché piacquegli scriverla e pubblicarla con secretezza tale da nascondersi a tutti, e finanche al suo illustre zio monsignor Galiani, per sorprenderlo poi gradevolmente, siccome avvenne. E fu tanto piú difficile e meraviglioso il potersi mantener questo segreto, quanto egli, vivendo sotto la severa cura e disciplina e nella casa stessa di lui, ne veniva perpetuamente osservato. Inoltre avea monsignor Galiani, per la carica di cappellan maggiore che gloriosamente esercitava, tanta autoritá e tanta ispezione sull’Universitá degli studi, sugli uomini di lettere tutti e sui libri che si stampavano in Napoli, che pareva opera impossibile il nascondergli qualunque cosa in questo genere. Pure il segreto, affidato a due soli giovani suoi coetanei, si mantenne. Furono questi il signor don Pasquale Carcani, il cui nome solo basta all’elogio, ed il signor don Pasquale di Tommasi, a cui deve la repubblica letteraria la bella edizione della Crusca fatta in Napoli nel 1746, arricchita di moltissimi vocaboli sfuggiti agli accademici fiorentini. Ebbero essi il pensiere di chiedere ed ottenere le dovute permissioni al manuscritto, di passarlo allo stampatore e badare a quell’ultima correzione che si fa quasi sul torchio, ed infine a tutto quello a cui non potea assistere il celato autore. Cosí riuscí al medesimo godere del rarissimo piacere, per piú di due mesí che si tenne ignoto, di sentirne l’imparziale e sincero giudizio d’ogni ceto di leggitori, di vedere i dotti tutti tormentarsi il cervello ad indovinarne invano l’autore e di sentir encomiar l’opera dal suo stesso zio, a cui fu obbligato farne la lettura, come solea degli altri nuovi libri, nelle ore del di lui riposo. Fu questa mercede bastante allo sforzo d’una fatica, superiore all’immatura etá, che avea intrapresa, perché gli avvenne soventi volte veder il zio ansiosissimo di conoscer l’autore d’un libro che infinitamente apprezzava e sentirsi domandare se mai potesse egli indovinar chi fosse. Né a tante richieste volle pur Ferdinando Galiani scoprirsi, finché il libro non fosse tutto letto e giudicato. Ha il dolce pensiero ora di credere che il contento che provò il zio, quando se gli scoprí, servisse a trattener per qualche tempo l’effetto in lui d’una grave malattia, che, cominciatagli poco prima con leggieri sintomi di mestizia nell’animo e di stracchezza nelle membra, divenne in capo all’anno un accidente emiplegiaco, dal quale, dopo aver languito fino al luglio del 1753, fu tolto di vita. Perdita grave ed irreparabile per le lettere, delle quali era stato nella sua patria piú illustre che fortunato ristoratore.
Mancò inoltre, come abbiam detto di sopra, al giovane autore l’aiuto de’ libri. Rarissimi erano stati fino a quel tempo gli scrittori di questa nobilissima e quasi nuova scienza del governo economico degli Stati, che poi, con rapidissimo progresso e moto accelerato, ne ha avuti tanti; cosicché, prima di giungere alla maturitá, si è trovata giunta alla corruzione d’un oscuro metafisico gergo in bocca a coloro che la Francia ha voluti chiamar «economisti»: del vaniloquio de’ quali prima pazzamente invogliatasi, e poi straccatasi e svogliatasi presto, com’era naturale, pare ora che, siccome fa delle vesti e delle sue pettinature, ne abbia negletta e cambiata la moda. Ma nel 1749 gli scrittori erano ancora pochissimi, né le opere di tutti erano per la distanza pervenute in Napoli. Di quante gli passarono sotto gli occhi si fece un sacro dovere rammentarle nella prefazione, che mise alla sua opera. La sola necessitá di quel segreto da noi di sopra narrato lo forzò a tacere allora quel che sempre di poi ha confessato, ed oggi per gratitudine si fa pregio di far pubblicare colle stampe, che a lui furono piú d’ogni libro giovevolissimi i discorsi per molti anni intesi di due uomini sapientissimi e profondi in questa scienza come in altre molte, che allora viveano in Napoli ed egli frequentava. Furono questi il marchese Alessandro Rinuccini e l’abate Bartolommeo Intieri, ambedue toscani: l’uno di nobilissima stirpe l’altro di oscuri natali, ma resi eguali e quasi fratelli dall’amicizia, dalla sapienza, dalla virtú. Dettero essi a questa cittá, dove fecero con piacere fin dalla giovanezza perpetuo soggiorno, il virtuoso spettacolo d’una lunga e costante amicizia, che non fu interrotta se non dalla malattia che precorse alla morte dell’Intieri, che, quasi nonagenario, fu il primo a mancare. Lontani dall’ambizione e dalla gloria di qualunque genere, furono uomini di somma dottrina, senza pubblicar alcun libro; di sommi talenti, senz’accettar alcuna carica; di sommo utile a questa quasi loro patria, senza avervi avuta alcuna potestá. Tanto può il solo esempio dell’onestá; tanto può in un popolo il solo insegnamento a voce delle anime libere, sapienti e coraggiose.
Quest’opera (che oggi noi, a richiesta di molti, ristampiamo, essendone divenuta rarissima la prima edizione) avrebbe potuto dall’autore esser ampliata, e piú diffusamente discorso di alcune delle materie in essa contenute; sebbene niente abbia egli, a suo intendere, di che mutarvi rispetto ai sentimenti ed alle opinioni che allora abbracciò e che sono in lui restate le medesime. Ma egli ha creduto che, siccome il maggior merito dell’opera era l’essere stata una delle prime e piú antiche in sí fatta materia di moneta trattata politicamente e l’esser stata parto dell’ingegno d’un giovane di ventun anni, cosí non ha voluto quasi in niente mutarla né ritoccarla, acciocché conservasse almeno questi due pregi, qualunque siensi, che ha. Solo si è egli avvertito che alcune frasi della medesima hanno allusione a cose allora notissime, delle quali oggi è oscurata assai e forse in tutto perduta la ricordanza; cosicché allora facilissime ad intendersene l’allusione, oggi non sono piú tali. Ha dunque creduto necessario richiamare alla memoria degli uomini lo stato delle cose e delle opinioni di allora; il che ha egli fatto in alcune brevi note aggiunte dietro all’opera e che si riferiscono a que’ luoghi che gli son paruti aver bisogno di questo quasi storico rischiaramento. Di queste sole note viene adunque arricchita la presente edizione e non d’altro, potendosi ben dir niente ciocché si è voluto nel testo mutare.
E, per dare a’ lettori una qualche idea della necessitá di tali rischiarazioni, diremo che, alcuni anni innanzi alla pubblicazione di quest’opera, erasi nel 1743 (anno memorabile per la pestilenza di Messina) dato in luce da Carlantonio Broggia un libro che ha per titolo: Trattato de’ tributi, delle monete e del governo politico della Sanitá. Fu il Broggia uomo d’ingegno. Avea nella sua gioventú con dimestichezza lungamente vivuto con Bartolommeo Intieri e col marchese Rinuccini, da’ quali eragli stato ispirato il gusto di somiglianti studi di politica e di governo. Felice se, come da loro apprese a ragionar delle cose di Stato, ne avesse del pari appreso a tenersene lontano e a nulla ambire. Ma il Broggia voleva esser valutato, per esser indi impiegato nelle cariche di governo ed innalzarsi a miglior fortuna. Questa ambizione, incontratasi in avverse circostanze, lo condusse in appresso a tragico e compassionevole fine. Né solo nella sapienza della vita si scostò il Broggia da’ suoi due illustri amici, ma se ne scostava anche in molte opinioni e sulla materia de’ tributi e su quella delle monete; onde avvenne che. pubblicata la sua opera, non trovando nelle bocche loro quell’encomio che si aspettava, si raffreddasse con essi l’amicizia. Pure a Ferdinando Galiani piacque in tutte quelle opinioni, in cui si oppose al Broggia, non citarlo, non combatterlo, non confutarlo mai; rispettando in lui un autor vivente, che avea scritto con buona intenzione e ch’era stato il primo tra noi a promuover colla stampa lo studio d’una utilissima e nobilissima scienza. Oggi, essendo egli morto ed il suo libro quasi messo in obblio, que’ luoghi della presente opera, che hanno allusione alle diverse opinioni del Broggia, gli son sembrati meritevoli di qualche rischiarimento.
Né minore ne richiederebbe il diverso attuale stato di Napoli e del suo regno da quel che era allora. La fortuna di esso cambiata nel 1734 in meglio coll’acquisto del proprio sovrano; le lunghe guerre indi sopravvenute in Italia, che, senz’arrecar considerabile nocumento a questi regni, vi fecero anzi circolar immenso denaro, di Spagna, di Francia, d’Alemagna e quasi d’ogni parte piovutovi; i migliori ordini del governo ad incoraggir le arti ed il commercio aveano in tutto mutata l’economia dello Stato, allorché ricomparve la pace in Europa nel 1749. La causa provveniva adunque da un acquisto di nuova forza e di maggior sanitá; ma l’effetto apparente e primo a scorgersi erano dolori, querele, scontentamento, malattia. Pareva che mancasse il denaro: si erano alterati i cambi; il prezzo d’ogni cosa era incarito; le rapide fortune de’ mercanti incettatori e non manufatturieri erano diminuite; tutti infine gli antichi ordigni e le molle dello Stato parevano o guaste affatto o sconcertate. E chi ne incolpava il lusso, chi il raffreddamento della devozione, chi incolpava di trascuraggine il governo, e chi una cosa precettava, chi un’altra consigliava. Non si poteva incolpare il principe di nuovi aggravi e di dazi imposti, perché troppo la saviezza e moderazione sua era stata visibile e palese; ma, da questo in fuori, tutto il dippiu si diceva. Eravi chi consigliava a far legge su’ cambi, chi ad alterar la moneta, chi a variar le proporzioni trall’oro e l’argento o almeno trall’argento e il rame. Credevasí che l’argento coniato fosse stato liquefatto dal lusso, e quindi sparito. Tutti ragionavano de’ mali, che non v’erano, come se vi fossero; e tutti proponevano per rimedio veleni. Il Broggia avea proposto l’introdur tra noi la moneta di conto o sia numeraria e il coniar monete di rame con picciola inargentatura (dette da’ francesi «di billon») come due specifici singolari. Altri, che aveano mano nell’amininistrazione della cittá di Napoli, in cui trovansi riconcentrate ora le vestigie de’ dritti dell’antico nostro parlamento, proponevano l’alzamento della moneta o la necessitá di coniarsi anche l’oro tra noi; ai quali pareri saggiamente si oppose Troiano Spinelli duca di Laurino, ora defunto, in un suo ragionamento.
Era insomma evidente il pericolo, che, ingannata la nazione dalla falsa apparenza de’ sintomi e de’ segni, giungesse a spaventare e perturbar l’animo di chi la reggeva, e che si pigliassero provvedimenti per impedire la vegetazione e la nuova salubritá del Regno, quasi fosse esso minacciato da qualche interno malore. Il solo Bartolommeo Intieri, chiaro veggendo in mezzo al buio, si rallegrava e godeva; benediceva il secolo, il principe, la nazione; augurava quella prosperitá, che infatti venne; e di tali suoi sentimenti godette che fosse lasciata testimonianza ai posteri nel libro Della perfetta conservazione de’ grani, che, indi a due anni, sotto il nome dell’Intieri (di cui era invenzione la macchina), l’istesso Galiani pubblicò. Ma l’Intieri, malgrado la stima conciliatasi, da pochi era creduto; perché piace troppo la maledicenza del governo, come quella che ha sembianza di libertá, e per lo contrario ogni lode, benché meritata, che se gli faccia, dá sentore o d’ambizione o d’adulazione in chi la fa. Invano si diceva esser cosa notissima che in tutti i fanciulli la vegetazione e la crescenza si annunzia spesso con sintomi di febre e di malattia: febre da non temersi né medicarsi punto, altro non essendo che quel moto e quello sviluppo che fa la macchina per distendersi e nutrirsi; che ogni miglioria dá febre ad uno Stato; che sono sempre naturali e sicure le similitudini e gli argomenti tratti dal corpo fisico a’ corpi morali; che, quando verso una parte delle membra, prima secca, smunta, mal nutrita, comincia a correr in maggior copia l’umore ed a rinvigorirla, impossibile è che quell’altra parte, dove in eccesso travasava, non si lagni di averne in parte perduto; che spesso si spacciano come voce universale della intera nazione le querele di pochi uomini della sola oziosa metropoli. Tutti questi discorsi, benché saggi e veri, uscendo dalla voce d’un solo in ristretto circolo di persone, non bastavano a far ampia e durevole impressione.
E fu, a vero dire, questa la principale se non l’unica causa che mosse il Galiani a scrivere la presente opera, nella quale chi attentamente la legge si accorgerá che, presa l’occasione dalla moneta, di tutta l’economia degli Stati, e principalmente di questo nostro, si ragiona.
Ha l’autore oggi la doppia consolazione, e ne è quasi orgoglioso e superbo, di vedere che quel giudizio, che in esso détte dello stato di questo Regno nel 1750 e di quanto, malgrado i fallaci segni, era da sperarne di aumento e di prosperitá, si è dipoi trovato in ogni sua parte vero e d’anno in anno confermato; del che è ormai non solo la nazione tutta, ma l’Europa intera persuasa. Ha in secondo luogo avuto il piacere di osservare d’essersi dalla sapienza di chi questo nostro Regno ha governato preso a seguire quell’istesso metodo per appunto, quelle stesse pratiche, quelle stessissime precauzioni rispetto alla moneta, ch’egli avea credute convenevoli e buone. E, sebbene sia lontano dall’immaginare non che dal vantarsi d’avere a ciò col suo libro in parte alcuna contribuito, non può però non esser contento di cosí illustre suffragio; tantoppiú che l’evento ha corrisposto, essendosi con raro esempio veduto in questo Regno, da quel tempo in poi, la moneta sempre in ottima regola e calma e senza minima scossa o perturbazione.