Del veltro allegorico di Dante/XXXVIII.

XXXVIII.

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XXXVII. XXXIX.

[p. 68 modifica]XXXVIII. Gli avvenimenti non Smentirono la sua fiducia nell’ingrandimento del Faggiolano. Trascorso alcun tempo, Uguccione rassegnò a Ciapetta di Montauto la carica di podestá in Arezzo; contento a quella semplicemente di capitano del popolo. Ma tosto superò il collega, e fece rientrare i Tarlati nella cittá. Ei fu allora podestá (aprile 24), ei capitano, ei tutto il governo: e, per la prospera fortuna dell’imperio, si ritirò alla professione antica delle piú severe massime ghibelline. Indi, scacciati i ghibellini-verdi, che con esso lui avevano fino a quel [p. 69 modifica] punto alquanto avuto del guelfo, ai fiorentini uccisori di messer Corso sdegnoso il Faggiolano ruppe la guerra. In mezzo a tali rivolgimenti mori Carlo II di Napoli (maggio 5): Dante l’odiava giá da gran tempo e non si rimase giammai di trafiggerlo quale dappoco (Purg. XX, 79; Parad’. VI-XIX-XX). Lui vivo, l’Alighieri avea scritto metá del Convito, poiché lo ammonisce che seguisse meno stolti ed avari consigli. Succedé al monarca il figlio Roberto, piú avventuroso ed utile amico dei guelfi.

Deposto intanto a Parigi gli atri colori, coi quali avea si fieramente tratteggiato VInferno, l’Alighieri cominciò la melodia di quel soavissimo canto che si ascolta nel suo Purgatorio’, maraviglioso ingegno e sovrano in tutte le maniere di stile, in ogni genere di eloquenza, in ciascuna delle piú difficili scienze della sua etá. Date alquante lagrime al suo amico Casella (Purg. II, 191), egli scrisse i versi pel re Manfredi, nei quali è dubbio se l’ortodossa gravitá delle sentenze cattoliche accomodate ai bisogni della sua parte ghibellinesca vinca la tenerezza dei sentimenti e l’armonia ineffabile della poesia (Purg. III, 112). Deplorò indi l’acerbo ed immaturo fine di Buonconte da Monte Feltro, cui non piú il poeta nel tempo del proprio esilio avrebbe amato di avere un di combattuto (Purg. V, 88-129). Ed acceso di zelo a Parigi per la memoria di uno che gli parve innocente, gravò la madrigna di Filippo il bello, Maria di Brabante, che avesse tratto a non meritata morte Pier della Broccia, ministro giá di Filippo III l’ardito (Purg. VI, 19-24): le quali rimembranze degli affari di Francia, ripetute non di rado nel Purgatorio, sono monumento della sua dimora oltremonti. (VII-109, XI-Si, XX-52). Ma per Francia non dimenticava egli l’Italia; e col pensiero vi rivolgea volo siffatto che ogni dire vien meno: al paragone di tale poesia ogni altra scolorasi, né piú si giudica essere Ugolino e Francesca i luoghi piú belli del divino poema. Egli è questo il canto sesto del Purgatorio’, il canto del mantovano Sordello, e dei suoi abbracciamenti con Virgilio, e delle fervide brame di patria, e delle ironiche rampogne contro Firenze. Quivi, rigido mantenitore dell’unitá di tempo, favella il poeta del 1300, e di Alberto d’Austria che allor sedeva; [p. 70 modifica] ma giá il successore Arrigo VII era stato eletto, e le cose che finge di dire intorno ad Alberto ei non le dice se non di Arrigo, il quale non ancor discendeva in Italia. Sordello adunque il prega, venisse tosto a guarirne le piaghe, venisse: ma con si bei versi che in tutt’i cuori la dolcezza ne suona. Che se Alberto tardasse non altrimenti che i suoi neghittosi predecessori, temesse pur l’ira del cielo e il giudizio di Dio (Purg. VI, 106-117): temesse in tal guisa che anche il futuro suo successore, cioè il giá eletto Arrigo, ne tremi (Purg. VI, 102). Donde si scorge che il sesto canto fu scritto nel tempo interposto dalla elezione fino alla venuta in Italia del nuovo re dei romani.

Nel canto seguente la bella valle dei re alberga le ombre di coloro che tennero il trono ai di del poeta. In questa rassegna dei sovrani di quella etá, il luogo piú distinto è conceduto a Pier di Aragona: dietro a lui siede Alfonso, l’amabile giovinetto al quale, se fosse rimaso re, sarebbe passato il valore di Pietro (Purg. VII, 115-117): i fratelli di Alfonso potevano a giudizio deH’Alighieri (Purg. VII, 119 120) possedere i reami paterni; ma il miglior retaggio di quel valore non era sicuramente cosa da essi. Ciò sembra duro ed ingiusto di Federigo, cui voleva Dante dedicare VInferno, si come disse a frate llario del Corvo: né certo vi fu trionfatore piú illustre di Federigo, che seppe mantener la Sicilia incontro a tutte le ire di Bonifazio ed alla possanza degli Angioini. Grande amicizia, chi voglia credere a Giovanni Boccaccio, congiunse in prima Federigo e il poeta; la quale, se vera, e non si coltivò solo per lettera, potrebbe far sospettare non avesse forse l’Alighieri navigato di Francia in Sicilia. Ma di tale viaggio non parla né il Boccaccio né altri; e giova credere che il poeta fosse stato semplicemente ammiratore un giorno di Federigo lontano: delio stesso, che in altra stagione gli sembrò il piú avaro e codardo (Parai. XIX, 130; XX. 63). Né biasimollo solo coi versi, ma le sue prose non ancora finite né pubblicate del Convito e dell ’Eloquio Volgare (lib. I, cap xn), asperse di frequenti rimproveri contro il re, accoppiandolo sempre con Carlo II di [p. 71 modifica] Napoli. Cagione a noi sconosciuta produsse tal cangiamento, e alla volontá di dedicare la terza cantica sostituí si lunghi e fieri rancori.

Ma non potrebbe perdonarsi al poeta se nell’atto che si mordeva Federigo nel Purgatorio, lo avesse poi nel Purgatorio medesimo lodato magnificamente, chiamando lui onore della Sicilia e Giacomo dell’Aragona (Purg. III, 116). Cosi finora si è creduto che Dante avesse parlato di questi due fratelli, ed io credeva così fino a che non mi si fece chiaro doversi questa lode attribuire al solo giovinetto Alfonso, il quale col padre guerreggiò in Aragona contro Carlo di Angiò per la difesa della Sicilia. Alfonso mette di accordo l’Alighieri con sé medesimo, e lo assolve dalla taccia di una manifesta ed ignobile contradizione: poiché se non fu Dante amico di Federigo e per conseguenza colpevole dell’averlo si oltraggiato quando fini l’amicizia, neppur dovea l’Alighieri nella stessa cantica lasciar vestigio della lode a fianco di cotanto biasimo. Scevro affatto da odio e sacro solamente all’amicizia ed alla riconoscenza è l’ottavo canto del Purgatorio, dove rammentansi le oneste accoglienze di Nino Visconti giudice di Gallura (Purg. VIII, 52-55), e si leggono lo splendido elogio dei Malaspina di Mulazzo (Purg. VIII, 118-132), ed una delle piú commoventi predizioni dell’esilio di Dante (Purg. VIII, 133 139). Me ancora, divelto dalla mia patria, in amichevole ospizio tenne alquanti di vicino a Mulazzo Giuseppe marchese Malaspina, dalla gentilezza degli avi suoi punto non tralignante: vagammo insieme nel Val di Magra ov’ebbe stanza il poeta: rileggemmo sovente i versi, pei quali non può perire il nome dei Malaspina.