Del veltro allegorico di Dante/XXXVII.

XXXVII.

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XXXVI. XXXVIII.

[p. 65 modifica]XXXVII. Dappoiché per volere di Dante istesso, come si disse altrove, in ogni allegoria si hanno a considerare piú sensi, e che tra questi egli annovera (in Epist. ad Kanem grandem) il morale ovvero lo storico, a questo senso bassi a por mente, preferendolo ad ogni altro: a questo, perché contiene la somma delle sue passioni e delle sciagure di lui. Ricercando il senso storico nella Divina Commedia, gran parte si disnebbia del libro; e sovente arcane bellezze quivi sono svelate ove si sarebbe creduto non ascoltarsi che il suono di buie o di vane parole. Opera insigne collocò adunque il conte Marchetti nell’illustrare le allegorie del primo canto; quivi l’Alighieri ne rappresenta la selva o valle in cui tre fiere albergavano. A lui [p. 66 modifica] desideroso di giungere alla sommitá di un monte diedero tanta noia, che il costrinsero a volger cammino. Il conte Marchetti ravvisa nella valle o selva l’immagine dell’esilio del poeta: e nelle tre bestie, che sono il leone, la lonza e la lupa, scorge adombrate le tre potestá che cacciarono Dante fuori del seno dolcissimo della patria, cioè i neri di Firenze. Carlo di Valois e la corte di Roma. Le fiere, or Luna or l’altra, gli vietano di giungere all’altezza desiderata del rivedere Firenze. Perduta siffatta speranza per l’impaccio di esse, l’Alighieri si trasse indietro e s’imbattè in Virgilio, che gli disse doversi tenere altra via per giungere a quell’altezza (Inf. I, 91): ciò vale che Dante diessi allo studio e al poema. Con questo si mise nell’animo di potere quando che fosse placar la patria, cui egli avrebbe accresciuto la gloria, e richiamar l’amabile pace che dovrebbe ristorare Italia e ribandir gl’innocenti.

Siffatte avvertenze del conte, sulle quali nuova luce in un secondo lavoro egli spargerá, provveggono certamente a quelli che furono i bisogni e i desideri dell’esule, allorquando la condannagione al fuoco l’incolse. L’ingiustizia dell’esilio gli rammentava la patria ogni giorno, e non poteva egli dimenticare né la sua povertá né tutto sé stesso. Volendo adunque dipingere il suo stato, ei restrinse nel solo punto poetico della visione di aprile 1300 la narrazione allegorica delle sue sciagure dal priorato fino alla sentenza di Cante Gabrielli del io marzo 1302. Per terminare tanta miseria, non solo Dante accennò il pensiero di tessere il libro, ma Virgilio esortollo a sperare che generoso e soccorrevole un veltro nascerebbe tra Feltro e Feltro per cacciar la lupa da cittá in cittá, e rimetterla in inferno e salvar l’umile Italia (Inf. I, 106). Qui l’allegoria dirada i suoi veli; aperto si parla qui non di altro che dell’Italia; e non di tutta quanta ella era divisa dai monti e dalle signorie, si veramente di quella piú bassa che Virgilio elesse per cantar le maraviglie primordiali della fondazione di Roma, e le morti onorate cosi dei due amici troiani come della giovine guerriera del Lazio (Inf. I, 107-108). L’Alighieri adunque parlò della terra italiana, di cui piú gli caleva, dove sono rac[p. 67 modifica] chiuse Firenze patria diletta, e Roma cagion del suo danno. Della lupa il veltro avrebbe liberato cotal parte d’Italia: or qual sará questo veltro?

Boccaccio e Benvenuto da Imola noi sanno, paghi sol di narrare il detto dei piú antichi; ai quali sembrava, il veltro essere Cristo Signore, che sarebbe venuto fra cieli e cieli o costellazioni e costellazioni, quasi venisse fra due panni di feltro: come se Dante avesse nel principio del poema voluto delirare coi millenari, o che la venuta innanzi tempo del Signore non dovesse giovar che solo all’Italia. Il veltro è un principe tartaro, altri dicevano: anzi, secondo altri, un principe che nascerá tra il Monte Feltro e la cittá di Feltre. Di tali opinioni Benvenuto riprovò l’ultima in modo speciale (nella porzione inedita del comento): pur questa, creduta nuova da noi, ottenne facilmente la maggioranza nel nostro secolo tratto in inganno dal casuale somigliarsi dei nomi di Can della Scala e del veltro, non additante se non una bestia per propria natura inimica della lupa. Quindi si fermò il punto che Can della Scala, perché nato in Verona fra il Monte Feltro e Feltre nella Marca trivigiana, era il principe atteso dall’Alighieri: quasiché in tratto si lungo non vi fossero, del pari che Verona, le piú insigni cittá d’Italia Mantova e Modena o Ferrara e Bologna. Che piú? Nella stolta profezia di Michele Scoto (Paduae magnatum plorabunt flii necem diram et horrendam Catuloque Veronae), della quale si è detto, sembrò ad un illustre ingegno fra i veneti di leggere promesso a Cane Scaligero quel tratto stesso di paese fra le marche di Trevigi e di Ancona: di che per veritá lo Scoto non profferí alcuna parola.

Ma di Cane, che non combattè giammai fuori di Lombardia, o per le cose di Toscana e di Romagna e per conseguenza dell’Alighieri, si vedrá innanzi: altri, ben altri, prima del 1300, infino al 1308, quando appena lo Scaligero usciva dei fanciulli, avea guerreggiato in Romagna ed in Toscana, scacciando i guelfi da cittá in cittá, e facendo contrasto alla possanza temporale di Roma. Principe temuto da Bonifazio VIII, podestá per la nona volta di Arezzo, congiunto di messer Corso e [p. 68 modifica] dell’Alighieri, Uguccione adunque fu il veltro allegorico di Dante: il veltro posto ai confini di Toscana e di Romagna, abile ad osteggiarle fino alle porte di Roma e di Firenze: il veltro, cui per volere di Dante frate Ilario intitolava l ’Inferno. Né avrebbe si generosa fiera dovuto cibarsi che di sapienza e di virtú (Inf. I, 104): altissima lode che sconcio sarebbe di voler torcere a favore dell’ancora imberbe Scaligero. L’artificio della profezia di Virgilio intorno ad un liberatore futuro, e la poetica necessitá di non dipartirsi dai termini allegorici delle tre fiere abitatrici della foresta costrinsero l’Alighieri a tacere il nome della quarta, cioè del veltro: pari silenzio, e senza lo stesso bisogno, adoprò Dante nel consacrare il Purgatorio a Moroello Malaspina e il Paradiso a Can della Scala. Egli adunque ometteva i nomi, sia per altezza di animo, sia per meglio lodare: ma la situazione degli affari nel 1308 e le mire politiche dell’Alighieri l’obbligarono a celare chi fosse il veltro. Nondimeno il poeta ne descrisse la patria o il dominio tra Feltro e Feltro, cioè la Faggiola, tra le feltrie cittá di Macerata e di San Leo. Forse il primo canto, si come avviene delle prefazioni fu accresciuto dell’allegoria del veltro quando l’Inferno era giá terminato; ma, sia qualunque il tempo ed il luogo in che Dante scrisse tale allegoria, ella certamente gli tenne le veci di dedica: nella quale, invocando Uguccione che potea vendicarlo, copriva l’Alighieri di nube misteriosa le sue speranze di patria, e nel lasciar la terra nativa esprimeva i suoi voti a prò dell’umile Italia.