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XLIX. LI.

[p. 92 modifica]L. Primo pensiero di Gaddo della Gherardesca era la pace col re di Napoli. Firenze, giá meno severa cogli esuli, riammetteva fra le sue mura i Pulci, gli Arrigucci ed i Cerchi (giugno 24), eccettuati ciascuno dalla riforma di Baldo di Aguglione. La sede romana vedevasi tuttora vacante per la morte di Clemente V: infine Iacopo di Cahors fu innalzato al trono pontificale col nome di Giovanni XXII. La quale scelta s’ignorava in Italia, quando nel Castel nuovo di Napoli pattuivasi la pace fra i pisani e Roberto. Nel trattato non tralasciarono di affermare, che il Faggiolano era stato cagione unica della guerra (1317). L’opera fu terminata l’anno seguente: Pisa, Firenze, Pistoia e quasi tutta la Toscana vi consenti, tranne [p. 93 modifica] Lucca la quale restò ghibellina sotto Castruccio (maggio 12). Agli usciti delle cittá comprese nella pace facevasi abilitá di tornare, se venisse ciascuno ai comandamenti della sua patria. Non poco s’ingegnò con sottili astuzie per procacciar buoni patti alla sua Firenze lo storico Giovanni Villani; delle quali astuzie si leggono i racconti appo lui stesso.

In Romagna le cose cominciarono a procedere con uguale dolcezza, e Scarpetta degli Ordelaflí, prigioniero da sette anni, tornò in libertá, ma per gran pregio di denaro. In Lombardia fu insigne lo stesso anno per gli accordi che seguirono fra varie cittá si, che poterono le arti e le scienze avere alquanto di tregua in molti luoghi d’Italia, e respirare per breve ora gli amatori delle lettere ingenue. Francesco Petrarca era giá presso a compire il suo terzo e Giovanni Boccaccio il primo suo lustro: assai lontano da quei grandi uomini, ma pur candido e sensato scrittore, giá era nato Benvenuto da Imola. Il piú delle volte gli autori, guerrieri o magistrati nella loro patria, tramandavano ai futuri la memoria dei propri lor fatti, di che si è veduto un esempio in Giovanni Villani: lo stesso fece intorno ai suoi combattimenti ed alle sue legazioni Albertino Mussato, insigne storico e non ispregevol poeta di Padova. Quanta parte nei pubblici affari di guerra o di pace abbiano avuto gli scrittori di quella etá io mi propongo di mostrar nelle Istorie: pur non tacerò al tutto di due, che menarono meno pubblica vita, ma dei quali uno fu onorato dalla benevolenza dell’Alighieri, e l’altro conobbe Uguccione della Faggiola. Si chiama il primo Giovanni di Virgilio, poeta di alcun merito: il secondo è Ferreto da Vicenza, che seguitando le orme del suo amico Albertino Mussato si esercitò nella poesia non meno che nella storia: Giovanni e Ferreto, quegli guelfo in Bologna, questi ghibellino sotto Can della Scala, furono entrambi grandissimi lodatori di Dante; cui la sventura del Faggiolano aveva immerso in nuova e piú disperata miseria.

La recente sentenza data dal vicario di Roberto rinfrescava gli odii contro l’Alighieri: né i dispregi per Alberto ed Alboino e Giuseppe della Scala, si nel Purgatorio che nel [p. 94 modifica] Convito, lo incoraggiavano a chiedere la protezione di Cane Scaligero. Di non minore oltraggio verso lo stesso Cane può sembrar colpevole il nono canto della terza cantica, nel quale Dante a Cunizza di Romano (forse per gratitudine di alcuna cura ch’ella ebbe in Firenze dell’infanzia di lui) assegna sedia immortale nel terzo cielo. Senza far motto del vincitore, prediceva Cunizza i fatti della Marca trivigiana e l’orrida fine dei tre Alighieri a Ferrara e la battaglia del 1314, per la quale Cane Grande acquistò Vicenza dai padovani. Un silenzio si disdegnoso è prova certissima, che Dante non era in corte dello Scaligero nell’atto del cantar di Cunizza. Né certamente vi fu insinoaché regnò in Pisa ed in Lucca l’amicissimo trionfatore, che aveagli aperto la patria di Gentucca. Or, nello scorgere qual fosse la riverenza dello Scaligero pel Faggiolano, fece cuore il poeta e raggiunse a Verona il suo congiunto e il suo capitano. Dimenticate allora le ingiurie, lo accolse Cane Scaligero; tanto pago di avere nella sua corte l’autore dell ’Inferno e del Purgatorio, quanto premuroso di non increscere al Faggiolano. E l’Alighieri, non potendo piú offerire al nuovo benefattore alcune delle due prime cantiche, deliberò di consacrargli la terza e non finita del Paradiso: ciò che fece scrivendogli una lettera in queste sentenze:

— Giá la fama della tua magnificenza si era sparsa dovunque in Italia: ma quelle lodi troppo grandi, e smisurate io le giudicava; né volli prestarvi fede infino a tanto che io stesso non fossi venuto in Verona. Giuntovi ultimamente, i miei occhi mi fecero certo che non avea mentito la fama; che anzi avea taciuto parte del vero. I tuoi benefici non tardarono a ricercare un esule, quale io mi sono, amantissimo, è vero, della mia patria, ma non dei fiorentini costumi. Ed or dicomi tuo, e mi ti profferisco: e tu, vittorioso regnator di Verona e di Vicenza, non dei avere a vile l’amicizia di coloro che coltivano buone lettere, trasmettitori delle commendevoli geste alla posteritá. La sete della tua grazia, nella quale sono ancora si nuovo, mi accende: ma per acquistar favore appo te non posso donarti se non alcuno dei miei scritti, fra i quali meno [p. 95 modifica] imperfetta cosa è il mio Paradiso. Egli fu mai sempre mio costume di riguardar molto in essi, e di fare sottile inchiesta di coloro ai quali potessi degnamente dedicarli. Adunque voglio che tu accettassi di buono animo il mio Paradiso, e che a te fosse questo intitolato. Altre opere io volgo in mente utili all’universale, che pur si vorrebbero dare alla luce: ma le angustie della mia povertá mi vietano di proseguire l’incominciato cammino. — Il rimanente della lettera non conteneva che alcune dichiarazioni o intorno al poema in generale o al primo canto del Paradiso, non che i precetti sulle allegorie polisense. Come la lettera di frate Ilario, e questa dell’Alighieri ancor manca di data: ma conoscesi agevolmente che, giá divulgata la rinomanza dalla corte veronese, doveva essere trascorso alcun anno dopo la vittoria sui padovani e la pace seguitane, anzi che Dante avesse potuto vedere la magnificenza di Cane Scaligero. Le quali cose ripongono la lettera nella fine del 1316, o nei cominciamenti del 1317, dopo la gita in Verona del Faggiolano.

Così scrivea Dante Alighieri: cosi, nobilmente mostrando allo Scaligero il fianco piagato dalla fortuna, gli chiedea mercé senza viltá. Né di lui asseriva enormi cose, contento di encomiare la liberalitá di lui: siffatto encomio dei principi di molto larga e generosa natura ritorna tanto spesso nella Divina Commedia quanto il motteggiar contro l’avarizia e gli avari. Nella stessa guisa che parlò di Cane Scaligero avea parlato dapprima E Alighieri del Faggiolano, dei Malaspina, e insieme del gran lombardo: ma non dicea nella lettera che in Cane Grande si riposasse la speranza dei ghibellini, o ch’ei dovesse illustrarsi con alcuna delle opere attribuite al veltro nell’Inferno, e nel Purgatorio al capitano. E noi dicea Dante coi versi; e simili sensi a quei della lettera esprimeva nei tre canti, ove in brevi parole recò la storia della sua vita, facendo che il suo trisavolo Cacciaguida, primo di quanti spiriti gli apparvero nel viaggio misterioso, gli svelasse pianamente il futuro. Chi può ignorare quei canti? Chi avere dimenticato le descrizioni dei costumi antichi e delle famiglie illustri, e delle prime discordie [p. 96 modifica] o dei recenti delitti dell’amata Firenze? Chi non sará preso dalla bellezza dei racconti della sua innocenza, delle persecuzioni di Bonifazio VIII, dell’andarne in esilio, dei lunghi ed insensati sdegni dei bianchi, delle sventure del Mugello, e delle prime accoglienze del gran lombardo? Di tutto ciò l’Alighieri fa rassegna in quei tre altissimi canti: poscia, trasandato l’imbelle Alboino, commenda in Cane la magnificenza e il non curar dell’argento (Paraci. XV-XVI-XVII): ma né profetando ei tocca della vicentina vittoria, né altro accenna della guerriera virtú di lui, tranne che nascendo fu quel principe impresso dalla stella di Marte si, che i suoi fatti sarebbero stati notabili, o, come altri vuole, mirabili (Farad. XVII, 85-93). Di questa medesima virtú guerriera, e dello spregiar gli affanni per aver gloria si sarebbero vedute faville, non altro che faville, soggiunge il poeta (ibid. 76-78), innanzi che Clemente V ingannasse il settimo Arrigo, cioè prima del 1311.

Or perché sapesse Cane di quale animo fosse Dante Alighieri, gli affermava questi che troppo dura cosa è il pane altrui (Farad. XVII, 83-84); del qual detto alla corte dei ricchi non si profferisce il piú sdegnoso dal povero. E non si astenne il poeta nei medesimi canti di gloriarsi della sua nobiltá (Farad. XVI, 1-9): di che donnescamente Beatrice beffollo alquanto (ibid. 13-15). E sé medesimo, avente in moglie Gemma la cugina di messer Corso Donati, opponeva tacito ai nobili Adimari della buona Gualdrada, narrando che spiacque un giorno ad Ubertino Donati l’imparentarsi con essi loro (ibid. 118-120). A siffatte dichiarazioni altre ne succederono intorno al costume, pel quale infino allora l’Alighieri avea flagellato i piú possenti; di queste, non dimentico di Alberto e di Alboino e di Giuseppe della Scala, volea particolarmente informato Can Grande. Ma vinse l’animo altero, e non dilettossi di vile discolpa, e pel nuovo favore della corte di Verona ei non lodò i tre Scaligeri; e stando fermo ai primi detti, fu lietissimo dell’infuturarsi della sua vita (Parad’. XVII, 98). Cotali maniere poterono risvegliare nel principe veronese le mal superate avversioni: e non poco dovè accrescerle il fatto dello Scaligero [p. 97 modifica] che riconobbe solennemente per imperatore Federigo di Austria, tolto da esso il titolo di vicario imperiale in Verona ed in Vicenza. Non così fecero Uguccione che da Ludovico il bavaro aveva ottenuto l’investitura dello stato faggiolano, e Dante che il libro della Monarchia, destinato ad Arrigo VII, dedicò poi non si sa in quale anno allo stesso bavaro.