Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo III
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Capitolo Terzo
Che le lettere nascono da sé, ma sembrano abbisognare
di protezione al perfezionarsi.
Ella è passione innata nell’uomo, soddisfatti appena i bisogni di necessitá, il volersi distinguere dagli altri, col far meglio e maggiori cose in altrui e proprio vantaggio. Fra le nazioni selvatiche, questo amor della gloria si manifesterá nel voler l’uomo farsi miglior cacciatore o pescatore che niun altri; fra le guerriere, miglior soldato; fra le cólte, miglior politico, filosofo, istorico, poeta ecc.
Ciò posto, il primo impulso alle lettere, come ad ogni altra bell’arte, egli è pur sempre quel naturale innato desiderio di distinguersi: e questa umana passione si dée posare per prima e vera base d’ogni arte. Ma se nei diversi individui questo desiderio, benché per se stesso fortissimo, basti solo a far loro perfezionare le lettere pare problematico; e dai piú degli scrittori, e massimamente nel principato, è stato deciso e creduto il no. Io sarei di contrario avviso: e tenterò di provarlo, discutendo appieno una tal questione. Questa, a parer mio. è una delle tante cose che paiono a chi non si profonda ben addentro; e che non sono, a chi vuole molto riflettervi. Si dice ogni giorno: — Quel giovinetto ha certamente sortito dalla natura un grandissimo talento per la poesia; ma egli nasce di parenti non ricchi, che lo sforzano a tirarsi innanzi colle leggi, onde non la potrá mai coltivare. — A ciò rispondo io, domandando: — Codesto giovinetto, è egli povero a segno di dover accattare? — — Non è. — Dunque i primi bisogni di necessitá non lo incalzano. Prosieguo, e domando: — Ha egli ricevuto quella bastante istruzione, per cui l’uomo si mette in grado di poter far da se stesso? — Benissimo ha fatto e con somma lode i suoi studi; che se altrimenti fosse, mera temeritá sarebbe la nostra il giudicarlo capace di poter egli mai scrivere eccellentemente. — Ciò basta, conchiudo io; e s’egli ha veramente quel genio che voi gli supponete, quel genio lo infiammerá e lo costringerá piú assai al far versi, che non la necessitá, o il garrire del padre, allo studiare e professare le leggi. E cosí fecero il divino Petrarca ed il Tasso, ed Ovidio per dir degli antichi, ed altri ch’io taccio. Se dunque è nato per esserlo, si fará codesto vostro giovinetto un eccellente poeta mal grado di tutti, perché natura può piú di tutto.
Ma spessissimo il mezzo ingegno e il debole impulso vengono scambiati colla ispirazione vera; e perciò si piange tante volte in erba la fama di molti futuri grandi uomini, soffocati, per quanto si dice, dalle loro avverse circostanze; i quali, se le avessero avute favorevoli, avrebbero smentito una sí dolce aspettativa. Ciò mi fa credere, e non senza ragione, che la protezione possa bensí giovare agli ingegni mediocri, i quali per mezzo di essa poco dánno, ma niente affatto darebbero senz’essa; ma che ella sia assolutamente nociva ai sommi ingegni, in quanto questi assaissimo piú darebbero se non l’avessero. E ritroviamo anche di ciò negli esempi le prove. Dante non fu protetto: che poteva egli dar di piú? Mi si dirá forse: — Piú eleganza. — Ma egli ebbe tutta quella che comportavano i tempi suoi; e l’ebbe di gran lunga superiore a tutti i suoi predecessori che scritto aveano nella stessa sua lingua. Ma Orazio e Virgilio furono protetti: e diedero perciò quel tanto di meno, che la dipendenza e il timore andavano ogni giorno togliendo alla energia, giá non moltissima degli animi loro. Mi si opporrá, che Dante in una corte ripulita e delicata come quella d’Augusto non avrebbe adoprato tante rozze e sconce espressioni. Rispondo che questo può essere; ma soggiungo che Virgilio ed Orazio, fuor di tal corte, non si sarebbero contaminati di tante vili adulazioni e falsitá. Qual è peggio?
È anche vero però che forse costoro nulla affatto avrebbero scritto, se non fossero stati protetti da Augusto: ma che si verrebbe egli con ciò a provare? che il loro impulso era debole e secondario. Orazio stesso sfacciatamente e ingenuamente lo dice, parlando di sé:
. . . . . . Paupertas impulit audax,
ut versus facerem. Sed, quod non desit, habentem,
quæ poterunt unquam satis expurgare cicutæ,
ni melius dormire putem, quam scribere versus?1
Ma che vengo io da questa lunga digressione a concludere? Che la protezione principesca può forse giovare, o almeno non nuocere, alla perfezione delle lettere quanto alla lingua e alla eleganza dei modi; ma che alla perfezione vera di esse, la quale nella sublimitá del pensare e nella libertá del dire si dée principalmente riporre, non solamente non giova, ma espressamente nuoce ogni qualunque dipendenza, cioè ogni protezione; eccettuandone però sempre quella che accorderebbe una vera repubblica, non per capriccio o favore, ma per giusta, ragionata e imparziale generositá. Un uomo che scrive per giovare veramente al pubblico può, senza arrossire, ricevere ricompensa da quel pubblico che veramente si trova beneficato da lui. Ma come mai può egli riceverla da un potente, il di cui interesse è per l’appunto l’opposto di quello del pubblico? e come mai può accordagliela quel potente? Ecco il come: se lo scrittore avrá falsificato le cose agli occhi della moltitudine; ed in ciò egli avrá manifestamente meritato l’odio o il disprezzo di essa; ovvero, se avrá minorata la veritá, per compiacere al potente; ovvero, se l’avrá mascherata e anche affatto taciuta, per non offenderlo. Costui dunque, nei suddetti casi, come timido e vile ch’ei fu, non può mai drittamente pretendere ad acquistarsi vera fama tra gli uomini; ma, per altra parte, se non si è mostrato né timido né vile, non può certamente mai temere di essere ricompensato dal principe.
Ed in prova che le lettere protette parlano e influiscono diversamente dalle non protette, e a voler vedere quali maggiormente giovino agli uomini, si esamini una sola formola, usata da entrambe, diversa in paritá di circostanze. Le lettere, sotto un principe che le protegga, e che anche le lasci alquanto sfogare, vengono riputate molto ardite, e il letterato pare un uomo di gran nervo e coraggio, allorché si osa pronunziare in qualche libro, o predica, o altra pubblica orazione, le seguenti parole: «L’ignoranza è al fine apertamente combattuta e vinta: è giunto quel felice momento, in cui si ardisce arrecare la nuda veritá ai piedi del trono, ecc.». La veritá ai piedi dell’errore e dell’inganno? la veritá, che sussistere non può né trionfare, se non distruggendogli entrambi? Si può egli concepire un’idea piú falsa, una frase piú adulatoria ed iniqua? All’incontro, le lettere non protette, e il veramente libero letterato, sarebbero pure costretti di dir cosí: — È giunto al fine, o dée farsi giungere, quel felice momento, in cui la nuda veritá semplicemente manifestata ai popoli oppressi, viene da loro riposta sul trono, ove sola dev’essere, e sovra tutti indistintamente, per via delle giuste leggi, sola regnare. — Questo pensiero (anche rozzissimamente espresso se pure mai lo può essere) paragonato coll’altro, che fosse anche esposto dallo stesso Cicerone, non proverá egli ampiamente che le lettere sono assai piú perfette e piú utili dove cosí parlano che non dove parlano nel modo contrario?
Io dunque conchiudo in questo capitolo che pare che le lettere abbisognino di protezione al perfezionarsi, ma che cosí non è; dovendosi sempre intendere per vera perfezione d’una cosa qualunque, il maggior utile ch’ella arrechi a un piú gran numero d’uomini. E non solamente dico che le lettere non protette dal principe possono arrecare piú utile a un maggior numero d’uomini, ma che le sole non protette lo arrecano veramente; in vece che le protette, sotto l’aspetto di giovare, assaissimo nuocono; poiché tolgono allo scrittore, e quindi al lettore, la facoltá di spingere quanto piú oltre egli possa il suo pensare e ragionare; e poiché in somma, con quella loro nuda eleganza e felicitá di stile, elle danno credito e perpetuitá a mille errori, politicamente dannosi e mortiferi.
Note
- ↑ «L’audace povertá mi spinse a far versi; ma se io mi ritrovava agiato, qual elleboro sarebbe mai bastato a guarirmi di tal mattezza, di non preferire il dolce sonno al far versi?». Orazio, libro II, epist. II, v. 51.