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libro ii - capitolo iv
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Capitolo Quarto

Come, e fin dove, gli uomini sommi possano assoggettarsi agli infimi.

Ma pure, quella smania stessa che tormenta l’uomo, e lo sforza a tentare di farsi superiore ai suoi simili per via dell’opere d’ingegno, spesso anche lo martira sotto altri men nobili aspetti, inducendolo a tentare di superarli negli agi, nella ricchezza e nel lusso. Il grand’uomo è pure uomo; e quindi picciolissima cosa è anch’egli; e quindi, in mezzo al piú sublime delirio di vera gloria, ammette anch’egli benissimo il desiderio d’una migliore mensa, di un comodo cocchio e in somma d’una piú delicata e morbida vita. Anzi, la vita letteraria ha in sé questo veleno che, sfibrando ella il corpo, l’animo ammollisce non poco. Da questo provengono quei tanti immoderati desideri di migliorar sorte, che o tutti poi o in parte identificandosi, minorano di cosí gran lunga l’intrinseco pregio e la fama del letterato. E in queste o simili puerilitá, sentendomi io piú uomo che ogni altro, mi mostrerei pure stolido e superbo, se a tali naturalissime debolezze non compatissi. Ma, ciò non ostante, io sempre ridico ciò che sopra giá ho detto: che questa voglia di migliorar sorte può adattarsi, e non pregiudica, a qualunque altro mestiere; ma ch’ella è mortifera all’arte delle lettere. Io perciò consiglierei di farsi scrittori a quei pochi soltanto che non hanno bisogno, o non vogliono migliorare il loro stato quanto alla ricchezza; e a chi non si trova in queste circostanze consiglierei pur sempre di prescegliere ogni altra arte a quella dello scrivere.

Nulladimeno, per non escludere pure cosí assolutamente di mia propria autoritá dalle lettere i bisognosi di pane o di superfluitá, voglio imparzialmente, e con lume di sana ragione, esaminare se un letterato vero possa lasciarsi proteggere da un uomo piú potente di tutti, e fino a qual punto; ciò viene a dire come e fin dove il piú sommo uomo possa assoggettare