De mulieribus claris/LXXII
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CAPITOLO LXXII.
Emilia, moglie del primo Scipione.
Terzia Emilia, benchè per la nominanza della famiglia degli Emilj, dei quali ella avea tratta famosa nazione, per lo matrimonio del valentissimo marito, primo Scipione Africano, fusse famosa, molto più ella fu splendida per le chiare opere. E avendo questo in sua prima gioventù innanzi restituito a Lucio principe la sposata moglie vergine in primo fiore di fanciullezza, maravigliosa di spettabile bellezza, con lo tesoro profferto da’ parenti per ricomperare quella vergine; diventato vecchio non potè temperare sè medesimo dalla dannata concupiscenza, anzi si piegò allo suo adulterio, e allo amore d’una sua serva: la qual cosa non potendo ingannare lo pensiero dell’onesto amore, non potè stare occulto a Terzia, anzi in processo di tempo seppe ogni cosa. Ma chi dubiterà che ella lo sopportò molestamente? Perchè molti affermano che niuna cosa si può fare alle donne maritate, oltre alla vergogna, più grave nè più ingiuriosa, che concedere dallo marito a un’altra femmina la ragione dello letto, lo quale dicono essere suo. E io certamente di lieve lo concederò, perchè o che avvegna per la debilità di sua natura, o che lo faccia la non buona opinione di sè, la donna è sospettosissimo animale; perchè incontanente pensa se il marito s’inchina ad un’altra che adoperi danno all’amore debito a lei. Ma quantunque paresse faticosa cosa, quella gloriosa donna lo comportò con costante animo, e tenne nascosto lo peccato di suo marito con tanto silenzio, che non che lo sapesse altro, ma lo marito medesimo non se ne accorse, che ella sapesse quello che faceva. E pensava l’onesta donna, che, procedendo troppo innanzi, fusse saputo quello, che colui, lo quale con gloriosa virtù avea soggiogato i re e le forte nazioni, soggiacesse all’amore di una serva. E non parve assai a quella santissima donna, che quello peccato stesse nascosto, vivendo Scipione; ma, essendo egli già morto, a torre via la memoria di quella infamia, se per alcun modo o alcuna parte potesse espiare quello peccato, tolse via la cagione. E acciocchè quella la quale avea dato diletto allo marito, non potesse essere rimproverata d’alcuno rimprovero di servitù, e non si mischiasse con alcuno per non dicevole lascivia, per la quale potesse invilire l’appetito del magnifico marito; primieramente diede libertà a quella con liberale animo, poi la maritò a un suo famiglio. O quanto si deve levare al cielo con sacre lodi quella donna! Da una parte con giusto e paziente animo patì le ingiurie, e dall’altra1 pagò lo debito del marito verso la serva sua compagna di letto: la qual cosa quanto noi vediamo avvenire più rade volte, tanto dobbiamo stimare quella virtuosa. Un’altra donna avrebbe gridato e fatto l’adunanza de’ parenti, delle vicine, e di tutte le conoscenti donne, e avrebbe ripieno quelle di molte parole, e avrebbe caricato di lamentanze senza numero, dicendo, sè abbandonata, sè dispregiata, e sè essere vedova vivendo quello, e esser posta drieto a una fanciulla serva e di vil sorte, e puttanella, e avrebbe cacciato subito, anzi avrebbe venduto a incanto la serva; e avrebbe pubblicamente stimolato per lo marito con lagrime e con lamentanze; e non avrebbe curato, purchè ella avesse ricoverate le sue ragioni col gridare, s’ella avesse macchiato la gloriosa fama del marito.
Note
- ↑ Test. Lat. hinc æquo atque tacito patiens injurias animo: inde liberalem in rivalem sibi ancillulam defuncti viri persolvens debitum.