Dal mio verziere/Un libro che giunge a proposito
Questo testo è completo. |
◄ | Per un sasso in colombaia | Impressioni di un sogno | ► |
Un libro che giunge a proposito.1
È un romanzo. Un volume tutto pieno di sangue e di fuoco, lanciato come un fulmine da un piccolo Giove fra la pensosa trepidazione della lunga vigilia di un migliore avvenire. È un libro sulla guerra scritto da Emilio Zola, il solo fra gli scrittori moderni, credo, che potesse adoperare l’ardente materia senza sminuirla, senza accrescerla di qualche elemento soggettivo, senza scottarsi le dita. La gente che legge non avrebbe più il diritto di lagnarsi per un anno almeno, poichè un lavoro così poderoso, così imparziale, d’un interesse così unanime basta a determinare il valore artistico d’un periodo non breve di tempo.
Quaranta o cinquanta anni fa, prescindendo dalle condizioni sociali e politiche d’Italia, un libro simile avrebbe menato chiasso; chi sa per quanti mesi si sarebbe commentato e discusso, ci sarebbero stati partigiani bollenti e avversarii ostinati; ma quell’ingenuo tempo è passato: ora nel mondo intellettuale si sbriciola con un feroce sorriso o, se l’opera s’impone, ci si abitua subito alla sua superiorità. L’ammirazione muore, ahimè, l’ammirazione che ingentiliva e metteva le ali alle giovinezze. Nulla colpisce più.
Pure la Débacle deve scuotere; è impossibile che non scuota. Mentre si parla della necessità del disarmo ed echeggiano ancora le voci che nei congressi domandano la pace, mentre ancora per l’aria vola come un fragrante fior di gelsomino un volumetto scritto per la buona causa da un’aristocratica mano femminile, e sottovoce ne implorano il trionfo milioni di cuori, e un vecchio Slavo sogna, con la pace, di rinnovare il mondo, ecco un brusco e involontario cambiamento di sistema, ecco la malattia curata omeopaticamente, ecco lo Zola a dimostrarci che la guerra è non solo necessaria ma salutare, ma provvidenziale, come un rimedio energico contro la putredine delle nazioni. Mi par di ricordare che il libro dovesse intitolarsi «La Saignée» — titolo che ai simbolisti sarebbe piaciuto di più e che avrebbe forse meglio sintetizzato lo spirito, non voglio dire l’intento, del volume. Débacle, «lo scioglimento — lo sgombero — la catastrofe» è meno brutale, meno... Zoliano. Del resto è con compiacenza che qui noto come il Maestro accenni a sbrattare la sua arte che resta così di un sincero e sano naturalismo ben degna di esser madre di un’arte nuova ideale. In seicentotrentasei pagine fitte non ve n’ha una che obblighi la signora che legge a velarsi la faccia; e, come osserva acutamente il Depanis nel suo sagace articolo della Gazzetta Letteraria, questa volta non bisogna attribuire la straordinaria tiratura delle copie a una ragione di pornografia.
No; la ragione, grazie a Dio, è affatto spirituale. Nessuno più ignora che il romanzo dello Zola è tramato sulla guerra franco-prussiana; si può dire anzi che romanzo non c’è: sono episodi, macchiette, figure che aiutano a ricostruire dilettevolmente e sommariamente la storia di quella disgraziata campagna, permettendoci di penetrare con una rara verosimiglianza nell’ambiente dell’atroce dramma, direi nei cuori. I vecchi ricordano, i giovani respirano l’aria di un passato che evapora già nell’epopea, nella leggenda: tutti poi in quest’ora, in cui gli spiriti bellicosi sono anestetizzati, vogliono osservare riflessa l’immagine dello spaventoso fantasma già lontano.
L’immagine è orribile infatti. Ora, a mente fredda, pare impossibile di averlo potuto sopportare tanto tempo; pare impossibile che si avesse a tollerarlo ancora fra noi. È ancora e sempre la selvaggia moralità dell’opera zoliana, che par derivata dalle teorie di un certo filosofo vero o immaginario di cui parla in qualche luogo il Bourget, un filosofo che consigliava agli ammalati di qualche amorazzo dei sensi la cura d’un’osservazione all’ospedale delle infermità più schifose che affliggono il corpo umano. È il rudimentale rimedio degli antichi, che disgustavano dall’ubriachezza con l’esposizione dello schiavo ebro. Forse questo libro che mette la guerra come una condizione imposta dalla natura nell’eterna lotta d’ogni giorno; che la dice necessaria all’esistenza stessa delle nazioni; che la chiama la forza mantenuta e rinnovellata dall’azione, la vita rinascente sempre giovine dalla morte; questo libro popolato di larve e scritto da un romanziere è destinato alla gloria di essere un condottiero ideale della gran crociata bandita contro la guerra in nome della civiltà.
Non ci sarebbe troppo da stupirne. Alla foglia di rosa il vanto di far traboccare la coppa. Ognuno sa l’efficacia che ebbero nei nostri moti di libertà nazionale gli inni del Mameli e le poesie del Berchet. I tempi sono mutati e le abitudini. Ora lo Zola col suo epico poema in prosa potrebbe essere senza saperlo, magari senza volerlo, il bardo della pace.
Poichè è impossibile di scorrere quelle pagine con indifferenza. Zola ha visitato e studiato palmo per palmo il teatro della guerra: l’illusione della realtà è quindi perfetta. Si vive negli orrori, nelle ambascie, nei carnai, nell’abbrutimento della specie umana e questo dà sopratutto la tristezza infinita dei mali che gli uomini potrebbero e non vogliono evitare; dà l’avvilimento d’una degradazione cercata, la vergogna d’un affratellamento con le razze primitive e bestiali per cui pensiero è una parola vana. È un’angoscia inesprimibile che opprime riflettendo che solamente vent’anni ci separano da quelle barbarie, da quel flagello i cui episodi sono degni di far riscontro alle scene del Terrore... È una lettura che spossa quasi materialmente per il continuo fremito d’orrore e di pietà che sospende la vita; per il coraggio vero di cui bisogna disporre per vincere la ripugnanza e la tentazione di chiudere il libro e scappar via, via nel verde, nella serenità, accanto a qualche bell’opera feconda e pacifica per dimenticare... Certi episodi non si possono leggere due volte: quello del bambino febbricitante e assetato che rimane arso nell’incendio di gioia; quello del prussiano scannato su una tavola come una bestia da macello, episodio feroce in cui par che lo Zola stesso voglia infine concedere uno sfogo a una punta inevitabile di rancore costantemente e ammirabilmente domo dalla perfetta imparzialità. Tutta l’immoralità della guerra può essere sintetizzata, in questa scena nella quale una donna può assistere col suo figliuoletto, passivamente, al supplizio di colui che l’ha resa madre, quasi anzi provocarlo, perchè è un nemico dei suoi, e profittare della loro reciproca posizione per vendicarsi orribilmente d’un amore, non d’uno sfregio.
Poi l’amico che uccide l’amico all’impazzata, mentre ambedue combattono divisi da un’idea; e la donnina leggera che si concede al vincitore; e le masse condotte alla strage quasi inconscie; e le speculazioni indegne; e le rassegnazioni stupide; e i sacrifici inutili; e tutta la immensa miseria, infine, della guerra che rimesta e mette a galla il limo del l’umanità.
Dei vari pregi di colorito, di andamento, di forma sarebbe lungo, e per me arduo, il parlare. Poi oramai lo Zola non si discute più: a qualunque scuola si appartenga, qualunque concetto artistico si difenda, allo Zola ci si inchina. La sua opera resterà forse sola a rappresentare la letteratura romantica francese di questo scorcio di secolo, e sarà un monumento grandioso dalla cima fiorita di emblematiche guglie rilucenti e leggiere. Ah, non gli si faccia carico di affinarsi nel simbolo! Il simbolo è un prezioso elemento d’arte per i pensatori profondi! Mi pare che l’opera zoliana spogliandosene, si spoglierebbe d’un’irradiazione luminosa, si rimpicciolirebbe in tanti piccoli circoli viziosi e terreni, mentre così assurge alla dignità efficace e grandiosa d’una teoria universale.
Non c’è bisogno d’esser molto acuti nel pensiero e gagliardi nella immaginazione per intendere la poesia suggestiva di certe vignette, dirò così, ornamentali. La vecchia incognita, lacera e scapigliata come una furia, che dalla soglia della sua capanna urla «vili!» ai soldati che hanno l’ordine di retrocedere, indicando loro il Reno tedesco, mentre la sua scarna persona pare giganteggiare in quell’atto; il tranquillo lavoratore che durante una sanguinosa giornata di battaglia continua imperturbabile a spingere innanzi il suo aratro giacchè «non sarebbe perchè si combatteva che le messi cesserebbero di crescere e gli uomini di vivere»: la gloriosa spada del capitano vinto, spezzata con una forza atletica dalla gracile mano d’una madre dolorosa; l’aiuola di margherite, nell’ambulanza, arrossata senza posa di acqua insanguinata fino a diventare un piaccicchiccio nauseabondo; e tanti e tanti che io sciupo citando sommariamente così.
Ancora una parola, però: un’esclamazione ammirativa per il racconto della fatale battaglia di Sèdan, racconto elaborato con sommo magistero; per la figura dell’imperatore che s’intravede a intervalli, così oggettivamente; per la descrizione del grande incendio di Parigi titanicamente grandiosa. Si finisce per avere le vertigini di quell’eterna porpora di sangue e di fuoco, di quella distruzione pazza, diabolica, vorticosa, orgiasticamente macabra; e la mente eccitata par travolgersi nel delirio del povero Maurizio, il soldato ferito, morente, che inneggia alla distruzione, all’ecatombe, come a una salutare disinfezione, come a una pasqua di vita...
Ebbene, no; gli Dei sono sazi di respirare sangue e fuoco, e non è con un sacrifizio umano che si schiuderà agli uomini la feconda e pacifica landa sognata da Faust. L’amore deve estinguere, siccome invocava il De Amicis in una vecchia e nobile poesia, questo «fiume dai vortici cruenti», questo «mare di lagrime infinite». Ma però si innalzi, secondo il desiderio del poeta, un grande monumento di gloria a tutti i morti delle guerre umane, e la paura di ridiventar barbari o romantici non ci faccia — per pietà — rinnegare o sminuire il bello e santo eroismo italiano dove fu.
- ↑ E. Zola: La Débacle.